«Se alle donne viene insegnato a non esistere»: l'editoriale di Silvia Grilli
Un’amica iraniana, scappata negli Stati Uniti con la famiglia durante la rivoluzione islamica dell’ayatollah Khomeini, mi dice: «Credi che agli uomini potenti del mondo interessi qualcosa delle donne del mio Paese stuprate e uccise?».
Penso che ne siano impressionati, ma ha ragione lei: non fanno nulla. Non sospendono le relazioni diplomatiche, non interrompono gli affari. Per mantenere equilibri internazionali non forniscono armi alla protesta, come fanno invece con l’Ucraina che si difende dalla Russia. Intanto noi assistiamo al pestaggio delle iraniane e stampiamo copertine dedicate alle eroine che rifiutano il velo e sognano la libertà.
Noi giornalisti testimoniamo, sensibilizziamo, ma ci sentiamo impotenti. Queste ragazze non anelano a essere eroiche: protestano rischiando la vita perché ora non hanno niente da perdere, ma domani potrebbero avere un futuro migliore se sopravvivessero. Oggi sono in un buco nero come le loro sorelle afgane costrette a coprirsi dalla testa ai piedi, cacciate dalle scuole e dalle università, frustate in pubblico, escluse dai parchi.
Sento già l’obiezione: sono diversi l’Iran e l’Afghanistan, il primo è fortemente scolarizzato, il secondo è profondamente rurale. È vero, ma in entrambi i Paesi a queste donne viene insegnato di non esistere. Come fanno i mariti violenti in Italia: ti convincono che sei niente.
Il regime iraniano cerca di coprire il suo furore misogino con l’ipocrisia. Per fare rispettare il rigido codice morale, la polizia ti picchia se non copri i capelli correttamente col velo. Ma poi è sempre per rispettare il codice che ti stupra quando sei ancora una bambina sino a farti morire per le gravi lacerazioni?
L’altra dittatura, quella afgana, ci vuole completamente invisibili: abbiamo l’orribile colpa di nascere femmine.
Dopo che gli Stati Uniti e i loro alleati abbatterono i talebani nel 2001, ci furono segni di progresso: le bambine tornavano a scuola e le ragazze si laureavano; i burqa venivano dismessi e si affiggevano le pubblicità dei saloni di bellezza. Le donne diventavano sindache e ambasciatrici. Le giornaliste facevano domande scomode ai leader delle scuole coraniche. Poi sono tornati loro e anche il nostro peccato mortale di esistere. Ma la verità è che sottomettere le donne è per i talebani anche una questione di marketing: significa ristabilire l’ordine tradizionale. Mi raccontano le esuli che c’è un talebano nell’animo della maggioranza degli afgani.
Perché i maschi hanno talmente paura delle femmine da violentarle, impedire loro di studiare, picchiarle con le catene, ucciderle? Perché temono la loro libertà, la rivoluzione che il loro potere causerebbe. Uno degli insulti più usati nella rivoluzione iraniana è «beenamus»: significa non avere madri o sorelle, perché se tu le avessi non commetteresti atti così violenti contro di loro.
Io però non ne sono sicura: puoi avere madri e sorelle e da patriarca pensare sia corretto addestrarle alla sottomissione. Succede anche da noi, quando i mariti uccidono perché ubbidiente non lo sei stata abbastanza.
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