Max Pezzali: «L’eterna giovinezza di noi pop star»
Ha più di 500 concerti alle spalle, un figlio da crescere a distanza e un nuovo amore. Eppure, nonostante la vita adulta, colleziona pupazzetti e compone in cantina come quando era ragazzo. «Perché», dice lui, «Poter ingannare il tempo è uno dei lussi del mio mestiere»
«Mi hanno clonato la carta di credito». Max Pezzali esordisce così. Il ragazzo che diventò famoso come la voce degli 883 e che cantava l’assassinio dell’Uomo Ragno, oggi di anni ne ha 48 e invece di parlare subito di Astronave Max New Mission 2016, il nuovo album in uscita il 13 maggio con due inediti e 14 successi in versione live, o della vita da coach per il talent show The Voice of Italy (Rai Due) o, ancora, del prossimo tour estivo, inizia a chiacchierare di soldi.
Com’è vivere senza carta di credito?
«Può essere liberatorio, perché aiuta a uscire dal “consumismo delle minchiate”: vivo in un piccolo paese vicino a Pavia e compro tutto sul sito di commercio elettronico Amazon, dall’abbigliamento ai gadget tecnologici. In questi giorni mi mancherà non poter ordinare nuovi pupazzetti di lottatori di wrestling per la collezione che faccio con mio figlio. Per Hilo (7 anni e un nome che viene dalle Hawaii, ndr) è un mondo meraviglioso».
Mi sta dicendo che i soldi non sono importanti?
«Non ho una concezione sacrale del denaro. Niente auto sportive o case super lussuose. E non sono mai andato in vacanza in resort esclusivi. Odio il traffico e muovermi in auto, preferisco il treno. Faccio una vita normale. I soldi “fisici” sono quelli dei miei ricordi, le 1.000 lire che guadagnavo da ragazzo facendo le consegne dei fiori per il negozio dei miei genitori».
Dopo essersi separato da sua moglie Martina, è tornato a vivere vicino a Pavia, la città in cui è cresciuto.
«È stata una riscoperta. Ho creato il mio studio di registrazione in cantina. Anche mio figlio lì si sente libero. È abituato a vivere a Roma, in un condominio, dove i bambini non possono giocare in cortile. Nelle città nessuno vuole essere disturbato, i bambini sono banditi e si cerca il silenzio: una società che è il contrario della vita».
Come sono le giornate da padre separato?
«Tutto dipende dalla maturità dei genitori. La mia ex moglie e io abbiamo un solo obiettivo: la serenità di nostro figlio. Per noi non esiste la “verità” del papà che si scontra con quella della mamma. Seguiamo le stesse regole».
Suo figlio non le chiede mai: “Perché tu e mamma non tornate insieme?”.
«Per Hilo il problema non è tanto che io non sia più accanto a sua madre: lui accetta i nostri nuovi partner. Ma lo rattrista che, dopo aver passato la giornata con me, io debba tornare a Milano per lavoro. Insomma, gli piacerebbe che dormissimo più spesso insieme».
Sarà ancora più complicato quest’estate. Il suo tour inizia a Roma il 29 giugno e, in 11 date, la porterà in giro per l’Italia. Lei è un veterano dei concerti: ne ha fatti più di 500. Che effetto le fa salire sul palco?
«All’inizio della mia carriera mi sentivo a disagio perché sono sostanzialmente molto timido (confermo: in più di un’ora di intervista non mi guarda mai negli occhi, ndr). Non ho fatto la gavetta nei locali bui, senza rapporto con il pubblico: ho iniziato a scrivere canzoni nella cantina di casa perché non trovavo un modo migliore per comunicare le mie emozioni. E, alla fine, mi sono trovato di fronte al grande paradosso di questo mestiere: il mio istinto era quello di sottrarmi alle luci del palco, ma poi i fari si accendono e devi fare qualcosa».
Adesso è a suo agio?
«Sì, perché so che di fronte a me ci sono centinaia di persone che mi vogliono bene».
Cantare dal vivo è un’esperienza che l’ha resa più forte?
«È una delle due esperienze della mia vita che mi hanno insegnato a gestire gli imprevisti. Far parte di una band va oltre al gioco di squadra: ognuno dipende dall’altro, ti responsabilizza, ti aiuta a risolvere le emergenze quando capitano».
La seconda?
«Da giovane ho lavorato per la Croce Rossa, sulle ambulanze. Ho imparato che devi saper improvvisare».
Nella vita di tutti i giorni, qual è la sua personale strategia anti-imprevisti?
«Una semplice: la sera mi preparo i vestiti per il giorno dopo, altrimenti rischio di non trovare quello che cerco. Sono un disordinato: dissemino tutta la casa di abiti. Per fortuna c’è Tukta, la mia colf, che raccoglie tutto con metodo. La mia fidanzata Debora, che fa l’avvocato, è più sbrigativa: non ha pazienza. Ma possiede una dote che non ho: la velocità di esecuzione. Odia i miei tempi lunghi o che le risponda: “Lo faccio dopo”. Per lei il “dopo” appartiene a un’altra era geologica».
Come l’ha conquistata?
«Viveva a Pavia e avevamo in comune tanti amici e qualche pena d’amore. Credo che l’abbia attratta il mio senso dell’umorismo: non prendo quasi nulla sul serio, a partire da me stesso».
Che cos’è per lei l’amore?
«Un sentimento che cambia con il tempo. Da giovane ti riempi la bocca di parole d’amore. Quello vero, in realtà, lo scopri quando cominci ad avere dei figli e vedi i tuoi genitori che invecchiano. La donna che mi ama deve amare quello che ho alle spalle, non può pretendere di staccare solo un pezzo di me».
A proposito di suo figlio Hilo, seguirà le sue orme?
«La musica gli piace e sta seguendo lezioni di chitarra. Ha già composto una canzone: “Io voglio morire con un ukulele in mano”, sulla melodia di Yellow Submarine dei Beatles. È un brano divertente. Chissà, magari lo registreremo insieme e diventerà una hit».
Gli piace il lavoro del papà?
«Poco tempo fa mi ha detto: “A me piacerebbe essere famoso come te, ma poi vedo che è una noia. Troppe foto. A furia di fare autografi non potrei più giocare con i miei amici”. Insomma, è già saggio: sa che il mio lavoro comporta anche una perdita di libertà».
Il prossimo anno compirà 50 anni. Che effetto le fa? Ha paura di invecchiare?
«Preferisco non pensarci. Poi guardo Lorenzo Jovanotti, ha un anno più di me e sapere che c’è un mio collega-amico che è così contemporaneo, dal punto di vista psicologico, è consolatorio. Anche i miei idoli, come Bruce Springsteen, invecchiano. Chi fa questo mestiere gode di una giovinezza protratta, che è “artificiale”, ma visto che ce la concedono, godiamocela. Se avessi fatto un’altra professione, non mi avrebbero certo consentito di vestirmi così, oggi».
Lo guardo bene: giubbotto nero, T-shirt americana verde oliva e sneakers: un perfetto adolescente.
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