Marco Bocci dice a Grazia che diventare papà gli ha fatto scoprire la forza dei sentimenti. Ora nel suo nuovo film, L’esigenza di unirmi ogni volta con te, è un uomo alle prese con un’attrazione irresistibile. Venite a vederlo con noi
Marco Bocci ha il fisico del ruolo: il suo è quasi sempre quello del duro. Ha uno sguardo buio: occhi scuri messi in ombra da un ciuffo quasi perenne. Ha un film, in uscita il 24 settembre, che promette passione senza limiti. Ha fama di detestare le interviste e diffidare dei giornalisti. Insomma, è un uomo da cui ti aspetti fuoco e fiamme. E invece: gentilezza. Grande attenzione alle mie domande. E, in fondo a qualche risposta, una sfumatura di fragilità, che rende più vere le parole.
Lo intervisto perché è l’interprete, insieme con Claudia Gerini, del film di Tonino Zangardi L’esigenza di unirmi ogni volta con te, e Grazia il 22 settembre inviterà le lettrici a un’esclusiva proiezione con gli attori. Il film è la storia dell’amore estremo, alla fine autodistruttivo, fra un uomo e una donna che non riescono a fare a meno uno dell’altra.
Bocci, non possiamo che partire dalla parola passione. Lei è incendiario come sembra?
«Guardi che la passione non è solo quella d’amore. È un modo di vivere la vita profondamente. È la sensazione di esserci in tutto, anche nelle cose che sembrano marginali. Ed è una forma di rispetto per gli altri».
Rispetto? Mi spieghi.
«Ascoltare con passione è un modo di andare incontro al prossimo: dare importanza anche alle piccole cose che l’altro dice, capire che cosa vuol comunicare davvero. Io detesto la superficialità».
Il film racconta un amore grande, ma che fa male.
«È la storia di un uomo e una donna che fanno vite distanti e molto diverse. Poi si incontrano, si innamorano come mai prima. E alla fine perdono la testa. Facendo qualcosa di cui si pentiranno, per sempre. Una cosa che li perseguiterà: li renderà ossessivi, paranoici».
Di amore malato, amore assassino, sono piene le cronache. Non teme che il suo ruolo nel film possa in qualche modo giustificare le passioni violente?
«No, perché i due protagonisti non sono due eroi cinematografici. Ma due persone ferite, fragili, con vite piene di ombre e dolori. Sono tragicamente veri, credibili. Il mio personaggio è un uomo che ha subìto un trauma violento in passato e che da anni vive in uno stato di isolamento emotivo, ai limiti della depressione. Ha perso ogni forma di speranza. E non ha più alcuna capacità di appassionarsi. Neppure nel sesso. Poi incontra una donna che lo accende. Che si fa accendere da lui».
È questo l’amore assoluto?
«È quella forma di amore totale in cui niente e nessuno hanno più senso. Un amore che potrebbe salvarli e invece, alla fine, li condanna. Perché li ha accecati, fino a perdere i contatti con la realtà».
E a lei è mai capitato di non fare i conti con la realtà?
«Al contrario. Io sono uno che tiene sempre ben presente la realtà e che non sceglie mai di lavarsene le mani. Glielo ho detto: detesto la superficialità. È la cosa che più mi ferisce».
Il 9 settembre sarà di nuovo in tv, su Canale 5, con Squadra Antimafia. In questi giorni sta girando una nuova miniserie, Solo, sempre per Mediaset. E in autunno comincerà le prove di Modigliani, di Luca Ronconi, in scena da marzo. Il teatro è l’altra parte di lei?
«È la parte più sconosciuta, ma è quella più mia. È lì che ho cominciato quando avevo 17 anni ed è lì che voglio rimanere: anche solo per poco, ma sempre. In questi anni di tv, mi sono concesso regolarmente qualche spettacolo. Per Modigliani ho deciso di tenermi libero a lungo: è un testo fortissimo».
Anno intensissimo questo 2015. Cominciato il 22 gennaio con la nascita di suo figlio Enea.
Marco Bocci rimane in silenzio.
Le fa fatica a parlarne? So che ha rapporti complicati con la stampa. È stato frainteso?
«Almeno lo fossi stato. Mi capita di essere raccontato con trame di pura invenzione. Come quelle che raccontano una mia presunta crisi con Laura (Chiatti, 33 anni, attrice, ndr). Mi è capitato di capire che chi mi intervistava non voleva sapere niente di me e del mio lavoro, ma aspettava solo che io dicessi la frase giusta per farne un titolo. Che non c’entrava niente con me».
Provi a farlo lei un titolo su di sé.
«Io? Non saprei, come si fa?».
Bastano due parole che la definiscano, così com’è oggi.
«Appassionato e felice».
Che cosa ha voglia di dirmi di lei, di Laura ed Enea?
«Devo essere sincero? Nulla».
Guardi che io il titolo non lo sto cercando, ce l’ho già: l’ha fatto lei, no?
«La verità è che mi sento un idiota a parlare dei fatti miei. Mi sembra di dovermi difendere, giustificare, non so... Posso dirle che sto bene. Ecco, sì: sono contento».
Chiudo l’intervista pensando alla parola che è stata più usata nelle risposte: profondamente. Lo faccio notare a Marco che dice ridendo: «Guardi che io so anche essere divertente». Di più: appassionato e felice.
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