Marc Newson, l'uomo dei sogni impossibili
La prima volta che ho visto un pezzo disegnato da Marc Newson è stato in un video della popstar Madonna. La seconda volta in una sala del MoMa, il Museum of Modern Art di New York. E più recentemente ho trovato le sue opere nella Gagosian Gallery, la più importante galleria d’arte contemporanea con sedi in tutto il mondo. Insomma, Marc Newson non è un designer come tutti gli altri: con la sua creatività ha creato opere fuori dall’ordinario, veri capolavori. Eppure questo designer nato a Sidney 59 anni fa, ha in realtà disegnato di tutto: sedie, lampade, tavoli, librerie, valigie Louis Vuitton, occhiali da sole, sneakers, barche, aerei, orologi, profumi, canocchiali, penne, gioielli, forni, bottiglie. E perfino gli AppleWatch insieme al suo amico Jonathan Ive (ex Chief Design Officer di Apple).
Molti di noi, magari senza saperlo, conservano uno dei suoi oggetti in casa e tutti sicuramente ne hanno visto o avuto in mano uno. E alcuni suoi pezzi di design sono ormai molto ricercati, venduti da Sotheby’s o da Christie’s a prezzi astronomici. E pensare che Newson viene da un Paese, l’Australia, «non certo leader nel design quando ho iniziato negli anni 80», come racconta lui sorridendo. Cresciuto accanto alla mamma Carol, Newson da piccolo si divertiva nel garage del nonno Andrew Rolfe, immigrato da solo dalla Grecia a soli 16 anni in Australia. Passava ore a smontare radio, orologi, o costruire biciclette o modellini di aeroplani.
Molti suoi oggetti hanno linee fluide, spesso senza spigoli: ricordano forme avveniristiche, spaziali. Quando era bambino uno dei cartoni di maggior successo era I pronipoti, le avventure della famiglia Jetson, ambientata in una futura era spaziale. Lo guardava? Ne è stato ispirato?
«Molti bambini nati negli anni Sessanta ne sono stati influenzati. Ma allora non era fantascienza, ma realtà. L’uomo aveva camminato sulla luna e aveva iniziato la sua avventura nello spazio. Se qualcuno avesse detto che avremmo vissuto su Marte nel 2020, nessuno si sarebbe meravigliato. Poi la rivoluzione tecnologica ha preso un’altra piega, ma lo sviluppo dell’industria aerospaziale di quel momento è stata per me una grande ispirazione».
Da ragazzo che cosa voleva diventare?
«Non ne avevo idea, almeno fino ai 18 anni. Da una parte c’era l’architettura e dall’altra l’industria delle costruzioni. Non sapevo ci fosse un territorio in mezzo, il design industriale. Così dopo il liceo mi sono iscritto al College of the Arts anche se sapevo di non voler fare l’artista: sono un uomo troppo pratico. Mi piace troppo costruire cose, risolvere problemi, disegnare oggetti: non sapevo si chiamasse design. Ci sono arrivato piano piano, costruendo da solo i miei mobili. In quell’epoca pensavo che, per essere un designer, si doveva fare tutto da soli. Sono un uomo impaziente: non mi piace aspettare per vedere una cosa realizzata. L’unico modo per evitare la frustrazione è farsela da soli. Mio nonno mi diceva “se vuoi fare una cosa bene, fattela tu”: è stato il miglior consiglio che ho ricevuto nella vita».
È diventato famoso in tutto il mondo quando la cantante Madonna ha usato una sua creazione, la chaise longue Lockheed, nel suo video “Rain” nel 1993. Era stupito?
«Sì, ero orgoglioso, felice, ma non avevo capito quanto potesse essere importante. Dopo aver disegnato un pezzo, smetto di pensarci, passo all’esercizio successivo. Per me, allora e ancor più oggi, la chaise longue Lockheed è quasi un prodotto di qualcun altro. Ora la chaise longue Lockheed è più famosa di me ed è stata ripresa in molti video e film. In un certo senso ha ormai una vita sua».
In passato ha raccontato: «Il mio lavoro è cercare di tirare fuori le idee. Nella mia testa costruisco sempre qualcosa», anche quando va in taxi o guarda la tv o un panorama. Prende poi appunti?
«Uso sempre un taccuino in pelle per segnarmi l’idea iniziale, una specie di diario visivo. Penso molto: è la cosa che so fare meglio. Nella mia testa cerco di risolvere problemi anche quando sono a letto: un ottimo metodo per cercare di addormentarsi».
Il mondo digitale, virtuale, ha cambiato la nostra idea dello spazio?
«Sì, in modo più caotico, meno prestabilito. Un esempio? Lo spazio del lavoro non è più solo spazio del lavoro: si può lavorare dappertutto, anche in vacanza. È positivo perché da libertà, ma è negativo perché non permette di avere disciplina, che è importante per avere una routine. Almeno per me. Ma forse l’idea di una routine appartiene alle vecchie generazioni. Quindi, se hai una personalità molto strutturata va bene, altrimenti è più difficile capire dove e quando fare le cose».
Lo sviluppo del digitale ha cambiato anche la sua idea del design?
«Inevitabilmente. Ha modificato il modo di pensare le cose, di risolvere i problemi. Un aspetto meraviglioso del design è la sua internazionalità: non ha confini. Io lavoro ovunque nel mondo. E in un certo senso questa filosofia è in linea con il nuovo modo di affrontare i problemi con il digitale: la loro soluzione è ancora più versatile».
Ha disegnato di tutto, dalle sedie agli orologi, dalle scarpe agli aerei. Quale è stata la sfida più grande? E quale progetto il più divertente?
«Ogni progetto ha un elemento di sfida e uno di divertimento. Sono emozioni che a volte si sovrappongono, a volte no. Sono stato molto fortunato, per esempio, perché ho lavorato per più di 15 anni nell’industria aeronautica. Un po’ come lavorare nell’esercito: è molto rigida, impossibile da descrivere. Alla fine non tanto divertente, ma è una sfida continua perché devi essere molto attento su come esprimere la tua creatività. Dà però grande soddisfazione: il risultato è tecnologicamente di altissimo livello. E poi volevo dimostrare che ero bravo come un ingegnere. La gente si chiedeva come potevo lavorare lì, non avendo mai studiato ingegneria aerospaziale. Pensano che studiare 5 anni all’università ti rende più esperto che lavorare in quel campo da 15 anni. Lo stesso accade per la nautica: sto disegnando molte barche, anche grandi. Alla fine è una questione di logica: quello che mi stimola in questi progetti è la conoscenza. D’altra parte sto lavorando con la Gagosian Gallery, con folli mostre sulle mie sculture: è più divertente forse. Ma non posso separare questi due ambiti: ho bisogno di entrambi, ognuno influenza l’altro».
Qual è il rapporto tra il tempo e il design?
«La gente pensa che un bel oggetto di design debba essere in un certo senso contemporaneo. Non ho questa ossessione. Quando disegno qualcosa, non penso mai al tempo. Al limite mi chiedo: “Come sembrerà fra 10 anni?” Ma se hai creato molti oggetti in passato, può essere interessante guardarli ora. La Lockheed lounge sembra fuori dal tempo: potrebbe essere stata fatta negli anni Settatta, Ottanta o Novanta. Ecco, io cerco di disegnare fuori dal tempo».
Alcuni dei suoi progetti sembrano impossibili da realizzare, come la poltrona Wooden Chair, che fa parte oggi della collezione del Museum of Modern Art a New York. Come è riuscito a pensarla e a realizzarla?
«Quando l’ho disegnata vivevo a Sidney: erano gli anni Ottanta. L’idea era semplice e avevo la sensazione che si potesse realizzare. Ma nel mio Paese c’erano poche aziende di arredamento, non come in Italia, che mi sembrava allora era come Disneyland. Non potevo parlare con nessuno di quello che volevo fare perché nessuno avrebbe capito. In Australia tutti avevano rifiutato il progetto. Allora ho capito che bisognava guardare altrove: le aziende dell’arredamento non potevano risolvere il problema. Ho cercato nel mondo della nautica. È stato un percorso di tentativi ed errori. E quando ho diviso il problema in piccoli pezzi, è stato più facile risolverlo. Ho trovato un signore che mi ha trovato il legno adatto, un altro che piegava i listelli, un altro ancora che li assemblava. Il primo pezzo l’ho fatto in Australia ma non c’era nessuno in grado di produrre la sedia in modo seriale, fino a quando ho incontrato Giulio Cappellini: l’ha vista e l’ha amata. E poteva procurare tutte le risorse per produrla: per me è stata una rivelazione».
Ha conosciuto Giulio Cappellini all’inizio della sua carriera e ha creato la Felt Chair e la poltrona e il tavolino Orgone. Un incontro importante?
«Sì. È successo quasi 30 anni fa. Dopo aver vissuto in Giappone mi ero trasferito a Parigi. Giulio, in Europa, è stato il primo a riconoscere il mio lavoro. Incontrarlo è stato uno dei momenti più importanti dei miei esordi. La sua è stata la prima azienda europea con cui ho collaborato».
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