L'ultima fuga di Robert Redford
Robert Redford ha annunciato che non farà più film da attore. E così, spiega un giornalista che lo conosce da anni, segue quell’istinto
che l’ha reso unico: essere sempre distante e imprevedibile
Forse la chiave per capire tutto di Robert Redford è proprio nella trama del suo ultimo film, che debutterà negli Stati Uniti in autunno: The Old Man & The Gun, la storia di Forrest Tucker, il rapinatore di banche realmente esistito che ogni volta si faceva arrestare e, ogni volta, riusciva a evadere.
«Penso che il vero brivido per lui fosse fuggire, non rapinare», ha detto l’attore, 81 anni, annunciando che questa sarà l’ultima volta che lo vedremo davanti alla macchina da presa. E allora forse Robert Redford sta fuggendo e, mi viene da pensare solo ora, probabilmente è quello che ha fatto per tutta la sua carriera senza che ce ne rendessimo conto.
L’ho incontrato molte volte negli anni, e non nascondo che come molti colleghi della stampa estera di Hollywood l’ho sempre trovato tanto affascinante sul grande schermo, quanto poco empatico dal vivo. Di persona senti sempre la sua urgenza di essere altrove. Era così a 20 anni, quando fu espulso dall’Università del Colorado e scappò via in Francia, Spagna e persino in Italia, con l’intenzione d’imparare a dipingere. E ha seguito quello stesso impulso vitale ogni volta che ha scelto parti di uomini controcorrente: il marito innamorato di A piedi nudi nel parco, il truffatore della Stangata, il reporter dello scandalo Watergate in Tutti gli uomini del presidente, l’analista della Cia dei Tre giorni del Condor, il miliardario che offre un milione di dollari a Demi Moore per passare una notte con lei in Proposta indecente, il cowboy di poche parole dell’Uomo che sussurrava ai cavalli.
Tutti ruoli che hanno fatto la storia del cinema, ma che non sono mai valsi a Redford un Oscar: ha conquistato una statuetta per la regia di Gente comune nel 1981 e una alla carriera 16 anni fa, che suonava già allora come un risarcimento tardivo. Redford, però, era sempre “altrove”: era il divo della Hollywood dove regnano le grandi major, ma è stato il padre delle nuove generazioni del cinema indipendente fondando il Sundance Film Festival, tra le amate montagne dello Utah.
Una delle ultime volte che l’ho avuto davanti aveva superato i 70 anni, ma in un’ora di chiacchierata non si è mai abbandonato ai ricordi del passato, come tanti suo colleghi di oggi fanno anche prima di averne compiuti 30. Preferiva riflettere sul presente, erano gli anni di George W. Bush alla Casa Bianca e della guerra al terrore in Afghanistan, dopo gli attentati dell’11 settembre 2001: «Nella mia vita non avevo mai vissuto un periodo tanto buio: i princìpi di libertà ed eguaglianza che hanno permesso di costruire l’America oggi vengono violati da chi dovrebbe difenderli. Non possiamo essere isolazionisti, non possiamo tenere gli altri fuori, non importa quanto siamo forti». Parole che mi tornano in mente oggi, quando le stesse accuse vengono mosse da mezza Hollywood all’attuale inquilino di Pennsylvania Avenue.
Un’altra profezia di Redford riguarda invece l’immagine delle star: «Sai», mi disse allora, preconizzando l’avvento dei social, «sento che la mia vita personale sta diventando sempre meno mia: ormai a Los Angeles c’è la convinzione che un artista debba darsi tutto al suo pubblico, che gli piaccia o no. Io invece non sopporto che la gente dedichi tutta la sua attenzione alle celebrity e non alle questioni importanti che influiscono sulla vita delle nostre comunità». È passato qualche anno, ma Redford era così: avanti, schietto, inafferrabile.
« Ormai a Los Angeles c’è la convinzione che un artista debba darsi tutto al suo pubblico, che gli piaccia o no. Io invece non sopporto che la gente dedichi tutta la sua attenzione alle celebrity e non alle questioni importanti »
Elisa Leonelli, autrice del libro Robert Redford and the American West, per Grazia lo ricorda così:
«Stavo studiando per un master in storia e teoria del cinema alla USC (University of Souther California) e dovevo scegliere il soggetto per la tesi di laurea. Avevo intervistato Robert Redford per la prima volta nel 1992 come regista di A River Runs Through It (In mezzo scorre il fiume) dal romanzo autobiografico di Norman Maclean. Non ero mai stata una di quelle donne che trovava sexy l’attore biondo di Butch Cassidy and the Sundance Kid (1969) con Paul Newman o The Way We Were (Come eravamo, 1973) con Barbra Streisand. Ma rimasi molto impressionata dalle sue doti artistiche come regista.
«Il mio professore approvò la mia scelta, ma disse che dovevo trovare una chiave di lettura. Allora feci un viaggio al Sundance Institute, nell’Utah, dove Redford aveva costruito un albergo e organizzava corsi per filmmakers. Scoprii allora il rispetto che provava per la cultura indiana, il loro rapporto diretto con la natura e gli animali, proprio il contrario della violenza dei cowboy che uccidevano i pellerossa nei classici film western. Avevo in quel modo trovato il filo conduttore della tesi che avrei poi pubblicato in un libro nel 2007: Robert Redford and the American West. Secondo me Redford rappresenta i valori migliori del Far West americano.
«Esaminai i film in cui era un cacciatore di pelliccie, Jeremiah Johnson (Corvo rosso non avrai il mio scalpo, 1972), un fuorilegge Sundance Kid in Butch Cassidy (1969), un cowboy che libera il suo cavallo in Electric Horseman (Il cavaliere elettrico) con Jane Fonda. Redford mi spiegò come aveva iniziato con l’idea di fare il pittore, viaggiando in Francia e in Italia, e la regia gli consentiva finalmente di esprimere le sue idee visive, la necessità di proteggere l’ambiente, la natura e gli animali, in film come A River Runs Through It (In mezzo scorre il fiume, 1992) o The Horse Whisperer (L’uomo che sussurrava ai cavalli (1998) dal romanzo di Nicolas Evans».
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