Le preoccupazioni per l’immigrazione hanno spinto gli inglesi a lasciare l’Unione europea. Le incertezze per la crisi economica hanno mantenuto invece lo status quo in Spagna, mentre in Francia e Olanda c’è la tentazione di chiudere le frontiere. Qui lo storico Andrea Romano spiega perché sono proprio i timori i nostri nemici numeri uno
Tutti abbiamo paura. Cominciamo da piccoli e continuiamo da grandi, anche quando ci sembra di avere costruito intorno a noi una rete che ci protegga dal rischio. E a tutti capita, almeno una volta nella vita, di chiudere la porta davanti allo spavento. Salvo poi non sapere esattamente dove andare, una volta girate le spalle a quella porta chiusa. Qualcosa di simile sta succedendo in Europa, dove si moltiplicano i movimenti popolari che chiedono di ricostruire muri o reintrodurre frontiere di fronte all’incertezza del futuro.
La Gran Bretagna ha fatto la prima mossa, con la clamorosa vittoria della Brexit al referendum del 23 giugno, ma di qui a poco potrebbe accadere lo stesso in Francia, Olanda, Germania e forse persino in Italia. Tutti Paesi dove esistono larghi settori dell’opinione pubblica che premono per uscire dall’Unione europea e tornare a quel passato di dogane, frontiere, passaporti e monete nazionali che l’Europa ha conosciuto per la grandissima parte della sua storia. A chiederlo sono cittadini per bene, normalmente pacati e per niente radicali, con idee di destra o di sinistra, che attribuiscono a Bruxelles la responsabilità dei loro guai reali o immaginari. Cittadini normali che credono, del tutto in buona fede, che con la scomparsa dell’Unione europea se ne andrebbero d’incanto le paure da cui si sentono circondati. Paura dell’immigrazione, della povertà, della concorrenza, della diminuzione di status o della perdita di prestigio. Una tenace paura del futuro, in sostanza, a cui si vuole rispondere tornando ad un passato che si immagina saldo e rassicurante. Che sia vero o falso importa poco, così come non importa che sia chiara la direzione da prendere dopo l’uscita dall’Unione europea: perché spesso la paura del futuro è più forte di qualsiasi preoccupazione più razionale. L’importante è sbarrare porte e finestre, nella convinzione che chiudersi in casa possa dare quella sicurezza che si immagina perduta.
In Gran Bretagna non hanno impiegato troppo tempo, dopo la scelta della Brexit, per cominciare a interrogarsi con qualche smarrimento su dove andare una volta lasciata la casa europea. Già nelle 24 ore successive al referendum l’interrogazione più diffusa su Google nel Regno Unito è stata “Che cos’è l’Unione europea?”, mentre le firme sulla petizione on line per chiedere un nuovo referendum hanno raggiunto la soglia dei 4 milioni in pochi giorni. Come a significare che, anche in quel caso, chi lascia il noto per l’ignoto non è detto che sappia esattamente dove andare. Eppure la scelta è stata fatta, al netto dei molti pentimenti e di qualche incertezza tardiva.
Com’è accaduto tante volte nella loro storia, i britannici sanno andare avanti con orgoglio anche quando scoprono di trovarsi sulla strada sbagliata. Anzi, spesso è proprio l’orgoglio verso la propria nazione a sostenerli nei momenti di maggiore isolamento dal mondo esterno. E allora avanti con il baldanzoso stupore di chi ha scoperto il 24 giugno di avere chiuso, forse per sempre, la porta all’Europa. Non credeva ai propri occhi Nigel Farage, il leader del partito nazionalista e antieuropeo Ukip che, alla chiusura delle urne, si era mostrato molto scettico sulle possibilità della Brexit e il mattino dopo si vantava di avere vinto la battaglia «senza nemmeno avere sparato un colpo» (e pazienza se pochi giorni prima la giovane deputata laburista Jo Cox era stata assassinata da un fanatico con più di un colpo di pistola e molte coltellate).
Non credeva ai propri occhi Boris Johnson, il biondissimo e aristocratico ex sindaco di Londra alla guida del fronte dei Tory favorevoli all’uscita dall’Unione europea che, dalla vittoria della Brexit, ha ricevuto una spinta poderosa che con ogni probabilità lo porterà a guidare il partito conservatore. E non credeva ai propri occhi neanche il povero premier David Cameron, il cui posto nei manuali di storia sarà per sempre legato alla scelta di indire un referendum che in cuor suo era convinto di controllare ma che ha finito per sfuggirgli di mano: come il personaggio dei fumetti Willy il Coyote, ha scritto qualcuno, che costruisce trappole nelle quali finisce per cadere lui per primo. Ma soprattutto non credevano ai propri occhi quei milioni di britannici che nei primi giorni dopo la Brexit hanno visto crollare la sterlina ai livelli più bassi degli ultimi 30 anni, con il rischio molto concreto che la scelta referendaria produca ancora più incertezza di quella da cui ci si voleva proteggere.
Perché dalla Gran Bretagna viene un insegnamento importante: la paura è un animale sfuggente, promette sicurezza ma spesso produce vertigine da salto nel vuoto. La stessa vertigine di chi si chiude in casa, convinto di darsi maggiore protezione, ma poi scopre che ha comunque bisogno di uscire in strada per procurarsi cibo e relazioni. A meno che non voglia davvero chiudere con il mondo esterno, riducendo a zero i rischi della contaminazione con gli altri appartenenti al genere umano ma sapendo di poter contare esclusivamente sulla propria solitudine per intrattenersi. Con il “rischio Cast Away”, ovvero finire come Tom Hanks nel celebre film a litigare e piangere con un pallone per mancanza di alternative.
Forse è per questo che la Spagna, pochi giorni dopo la Brexit, ha deciso di rispondere alle stesse paure dei britannici con una scelta del tutto diversa. Il voto politico del 26 giugno ha premiato i popolari del premier Mariano Rajoy, colpiti da innumerevoli scandali di corruzione eppure capaci di tenere la barra del governo con sperimentato mestiere. E penalizzato le aspettative emozionanti ma fantasiose del movimento Podemos di Pablo Iglesias: un istrione della nuova politica, capace di passare da una determinata posizione a quella contraria senza batter ciglio nel giro di pochi mesi. E altrettanto capace di decidere per l’abbandono dell’Unione europea muovendo dalla diffidenza verso la moneta unica e la cosiddetta “Europa delle banche”, contro cui si è battuto fin dai primi passi nel movimento degli “Indignados” (“Gli indignati” in spagnolo). Quella che fino a pochi giorni prima sembrava una prova elettorale destinata a premiare Podemos si è trasformata nella conferma del più sperimentato conservatorismo di governo. L’usato sicuro contro il salto nel vuoto, ma anche la paura dell’isolamento contro la paura dell’apertura all’esterno. Perché in pochi giorni Spagna e Gran Bretagna hanno dato risposte identiche ma contrarie a uno stesso fenomeno che ormai attraversa tutte le società occidentali, in Europa come negli Stati Uniti: la paura come cifra del linguaggio pubblico, il timore del futuro come orizzonte delle scelte dell’elettorato. E se è inutile demonizzare quel sentimento tanto familiare per le nostre vite, singole o collettive, è indispensabile ricordare i disastri che si sono prodotti nella nostra storia anche recente ogni volta che la paura del futuro ha preso il controllo dei nostri destini.
Accadde per esempio a cavallo tra Ottocento e Novecento: un periodo dall’apparenza particolarmente felice per l’Europa, con l’assenza ormai da decenni di guerre importanti, la diffusione di fitti scambi commerciali, la fiducia in un futuro che sembrava positivo e promettente. Di lì a pochi anni le nazioni europee sarebbero invece precipitate nell’abisso umano, economico e culturale della Grande Guerra: un pozzo nel quale il continente sarebbe sprofondato sotto la pressione di paure sempre più forti e di chiusure nazionali sempre più ermetiche, e da cui sarebbe stato viziato l’intero Novecento. Perché la nostra storia ci insegna che niente è irreversibile, neanche la pace più stabile. E la bestia da controllare con la massima attenzione è sempre quella stessa paura che torna anche oggi a farsi conoscere con altri nomi.
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