«La strage di condominio a Roma e le nostre solitudini»: l'editoriale di Silvia Grilli
Quale abisso di dolore, frustrazione e solitudine può spingere un uomo a compiere una carneficina? Dopo la morte del figlio quattordicenne in un incidente, l’ex commerciante Claudio Campiti viveva nello scantinato senza riscaldamento e senza bagno di un fabbricato rimasto incompiuto.
Non aveva più una famiglia, dopo che la sua si era dissolta nella sofferenza di una perdita troppo grande. Non aveva più compagnia, se non i suoi sospetti e la sua rabbia che esternava online. Le persone per lui erano demoni, come le tre donne che ha ucciso a Roma una dopo l’altra: Sabina Sperandio, Elisabetta Silenzi, Nicoletta Golisano, consigliera, segretaria e commercialista del consorzio condominiale con cui era in perenne conflitto. Povere vittime a cui vanno le nostre preghiere religiose o laiche.
Questa strage senza senso mi ricorda quando un artigiano, maestro d’ascia, ha ucciso a Genova con arco e freccia un operaio solo perché stava festeggiando troppo rumorosamente per la strada la nascita del suo secondo figlio. Mi fa pensare all’uomo condannato a Torino per aver ucciso un ragazzo, che nemmeno sapeva chi fosse, solo perché era giovane e gli sembrava felice. Sono delitti che nascono dall’odio per la vita normale degli altri, invidia per la loro serenità. Veniamo sicuramente da un periodo non facile: prima la pandemia, poi la guerra, hanno ampliato le diseguaglianze e la rabbia sociale. In questi omicidi senza un reale movente, la domanda di chi uccide sembra essere: «È colpa mia o colpa del mondo?». L’assassino decide che il suo dolore, finora nascosto in uno scantinato, invisibile ai più, deve essere riconosciuto. Nell’irrealtà che l’autore della strage di Roma si è creato, la società è in pericolo perché poteri tanto forti quanto occulti la stanno distruggendo.
Ma lui li fronteggia e li sconfigge, si fa giustizia nel suo consorzio condominiale di “cattivi”. La sua vita si stava disgregando nel caos dopo la morte del suo ragazzo, così Campiti si è aggrappato a una narrazione in bianco e nero che gli desse ordine e uno scopo. La strage ha reso visibile a tutti la sua sofferenza, non era più il poveraccio che viveva in un rudere, era qualcuno. Lo hanno visto. Non era più solo.
Ma io vorrei parlare più di noi che di lui. Sappiamo tutti quanto, in un mondo sempre più digitale, sia facile isolarsi. La perdita di una persona cara, traumi, paure, ambizioni non realizzate, frustrazioni nel lavoro, famiglie distanti possono indurci pensieri feroci: «Sono solo, nessuno mi ama, il mondo mi è nemico». Siamo tutti consapevoli di quanto i pensieri intrusivi siano difficili da scacciare. E quanto sia facile per chiunque diventare prigioniero del proprio dolore. Ma più ci isoliamo più creiamo fantasmi. La solitudine genera sospetti e odio. So di che cosa sto parlando.
Solo le relazioni con un senso possono nutrire la nostra esistenza. La condivisione può aiutarci a uscire dalle situazioni più difficili. Sembrano cose da niente, banalità, ma contano: magari la prossima volta telefoniamo, invece di mandare un messaggio, guardiamo le persone quando parliamo con loro, consideriamo quello che dicono, non quello che ci aspettiamo che dicano. Nessuno si salva da solo, lo abbiamo imparato.
Buon Natale, e che sia insieme.
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