«Siamo tutte vittime», mi ha detto qualche giorno fa un’affermata chirurga. «Possiamo indossare abiti e scarpe magnifici, ma alla fine, chi più chi meno, a casa o al lavoro, siamo ancora intrappolate nella diseguaglianza tra uomini e donne».

«Siamo tutte vittime», mi ha detto qualche giorno fa un’affermata chirurga. «Possiamo indossare abiti e scarpe magnifici, ma alla fine, chi più chi meno, a casa o al lavoro, siamo ancora intrappolate nella diseguaglianza tra uomini e donne». Quel “tutte” ha continuato a rigirarmi nella testa con la sua spietata lucidità. Finché la cronaca mi ha messo di fronte alla storia terribile di Oksana Martseniuk, la colf ucraina trentottenne, decapitata come il reporter americano Jim Foley nella villa dove lavorava, a Roma, da un assassino efferato.
Era una di quelle straniere che tengono in ordine le nostre case, accudiscono i nostri bambini o i nostri anziani. Donne che inviano ogni mese lo stipendio nel loro Paese a figli che hanno lasciato troppo presto e a cui sperano di ricongiungersi un giorno. Le ho sentite a volte dire che considerano le nostre case solo come un lavoro come un altro, ma in realtà si affezionano, perché trovano in noi la famiglia che manca.
Oksana avrebbe dovuto tornare in ottobre dai suoi due figli a Kiev. Una breve vacanza per poi rientrare al lavoro. Ma su una persona così, più debole non solo perché donna, ma perché straniera, perché sottoposta
e perché sola, si è scatenata la violenza inaudita di Federico Leonelli, un ospite della casa. Tra qualche tempo probabilmente il nome di Oksana sarà dimenticato. Ma, se un po’ può contare, voglio onorare qui la vita di questa solitaria ucraina, una donna più vittima delle altre,
che aspettava l’autunno per tornare dai figli.
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