«Gli stupri di Hamas, quelli in Iran e i nostri femminicidi»: l'editoriale di Silvia Grilli
È difficile accettare che, nel 2023, si ripeta ancora la devastazione dei corpi delle donne con stupri di massa, come quelli di Hamas il 7 ottobre in Israele. Sarà per questo che molta parte dell’opinione pubblica nega siano accaduti e preferisce credere siano fake news fabbricate dallo Stato d’Israele? Oppure minimizzano perché «succede in tutte le guerre»? O è puro antisemitismo? Resta il fatto che istituzioni internazionali e organizzazioni umanitare hanno taciuto. Ci sono volute otto settimane prima che l’Agenzia per la parità di genere delle Nazioni Unite esprimesse parole di condanna.
Eppure ci sono i video che gli stessi miliziani di Hamas avevano postato, ripulendoli delle immagini più feroci, per vantarsi delle proprie gesta. Ci sono i filmati delle bodycam, le autopsie sui cadaveri e le testimonianze dei sopravvissuti. Tutto racconta i corpi nudi di donne ricoperti di sperma, ragazze con il bacino spezzato dopo le ripetute violenze, seni asportati, vagine dilaniate, visi d’angelo brutalizzati. Anche in questa guerra i corpi delle donne sono stati disumanizzati, ridotti a tagli di carne su cui accanirsi.
Dopo il 7 ottobre mi sconvolsero le immagini di Naama Levy, 19 anni. I terroristi l’avevano rapita da un kibbutz, il sangue le colava dai pantaloni della tuta, aveva ferite alle caviglie. Gli uomini l’hanno estratta dal bagagliaio della jeep afferrandola per i capelli. Naama zoppicava. L’hanno fatta salire sul retro della macchina per poi avventarsi su di lei. Quel filmato brutale è tutto quello che il mondo conosce di questa giovane donna. Sua madre ha diffuso un appello affinché la figlia venga liberata. Sono 17 le ragazze tenute ancora in ostaggio di Hamas. Secondo fonti israeliane, Hamas si rifiuta di consegnarle per timore che raccontino che cosa hanno dovuto subire durante la prigionia.
Sento già l’obiezione: «Perché non commenti i bombardamenti d’Israele che ha ridotto Gaza a un cimitero?». Sì, tutto questo è orribile. La guerra è orribile. Ma qui voglio scrivere del disprezzo per il nostro corpo sporcato, dilaniato. Un corpo su cui sputare. Come quando Shani Louk, la ragazza simbolo del massacro del rave, veniva fatta sfilare nuda e spezzata a Gaza, come un trofeo.
L’odio per le donne e l’arretramento dei nostri diritti vanno di pari passo con il terrore. Accade per le donne uccise in Iran perché non portano il velo, nell’Afghanistan che ha paura dell’ emancipazione delle ragazze e nega loro l’istruzione. I terroristi di Hamas tagliano i seni delle donne troppo libere e ci giocano a pallone.
Sento già l’obiezione: «Ma anche in Italia...». Eccomi: sì, anche da noi, dove c’è un femminicidio ogni quattro giorni. Se ci pensate, è quando la donna si ribella che il marito la uccide. E se conoscete quella serie possente che s’intitola The Good Mothers e racconta la storia della testimone di giustiza Lea Garofalo, avrete visto come la ’ndrangheta calabrese scioglieva nell’acido le donne disobbedienti appena poco più di 10 anni fa.
Il premio Nobel per la Pace è stato appena consegnato a una sedia vuota su cui avrebbe dovuto sedersi Narges Mohammadi: 51 anni, giornalista, scrittrice, attivista per i diritti umani, condannata a 31 anni di carcere e frustate. In settembre aveva scritto una lettera dalla prigione di Teheran dov’è detenuta. Testimoniava l’odio del regime per le donne e il prezzo che esse devono pagare: le accuse inventate, gli arresti, le botte feroci, gli stupri, le torture, le violenze psicologiche, i trasferimenti negli istituti psichiatrici.
“Una notte”, ha raccontato la premio Nobel, “ho sentito un pianto prolungato in una cella alla fine del corridoio. Qualche giorno dopo quelle sbarre si aprirono. Ne uscì una donna con gli occhi gonfi. Raccontò che era stata costretta a spogliarsi e quindi a sedersi, alzarsi, risedersi, rialzarsi, ancora, ancora ancora”. La testimonianza di Mohammadi continua, ma io non riesco a proseguire: il resoconto delle torture è di una violenza inimmaginabile. “Le donne”, ha scritto l’attivista, “sono diventate l’asse centrale della resistenza e perciò il bersaglio principale dell’oppressione”. Poiché il silenzio è violenza, noi continueremo a scriverne: per ogni vittima, senza esclusioni.
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