Gianrico Carofiglio: «Le mie areole addomesticano i mostri»
La paura, la malattia, la sfortuna, la cattiveria: Gianrico Carofiglio ha scritto tanti libri per dare senso a ciò che non comprende. Ora, però, pubblica una raccolta di racconti brevissimi: «Perché ho imparato», dice a Grazia, «che niente è più potente di quello che non dici»
Se cerchi un punto di incontro con Gianrico Carofiglio devi stare molto attenta a dove metti le parole. Sono come passi: ognuna porta in un posto preciso, da cui non puoi fuggire, con inutili giri. Perché lui, dalle parole,
è ossessionato. Sono al centro del suo lavoro di scrittore. E molto probabilmente sono il cuore della sua vita. Le ha utilizzate come arma d’indagine nel periodo in cui è stato magistrato: sulle tecniche di interrogatorio e sui tranelli della voce ha scritto e tenuto seminari. Ancora parole, ovviamente, nei suoi libri: tutti bestseller.
A cominciare dai tanti (pubblicati da Sellerio)
con al centro il malinconico avvocato Guido Guerrieri: uno che affascina, sfugge, cerca e capisce le donne, quasi quanto il suo autore. Di nuovo parole: nell’esperienza politica, dal 2007 al 2013, come senatore del Partito democratico.
E ancora oggi, quando Carofiglio, 54 anni, usa la scrittura in forma inedita dentro micro racconti, piccoli saggi, divagazioni, aneddoti. Ora raccolti in una specie di piccola guida per il viaggio della vita: Passeggeri notturni, in libreria il 15 marzo, edito da Einaudi. Un libro senza dedica, ma con un avvertimento, messo lì, prima della prima pagina, in una frase dello scrittore tedesco Thomas Mann: «Lo scrittore è un uomo che più di chiunque altro ha difficoltà a scrivere».
Vale anche per lei, immagino.
«Sicuramente. Tutto quello che pubblico è stato da me riscritto quattro, cinque volte. È una fatica che ho imparato ad accettare come necessaria. Ogni versione è un affannarsi di scalpello. Perché la scrittura è un lavoro di sottrazione: un libro è compiuto solo quando hai finito di togliere».
Questo suo ultimo libro è fatto addirittura di racconti minuscoli.
«Mi sono dato una regola: non più di tre pagine ognuno».
Chiacchiere sulla vita e sulle cose. Leggendole sembra di parlare con un interlocutore a cui, però, non puoi rispondere.
«Invece sì. Chi legge risponde sempre a chi scrive: quello che conta, nei libri, sono gli spazi vuoti, che vengono riempiti dalla fantasia del lettore. Ho chiesto a un gruppo di lettori di descrivermi fisicamente il mio personaggio più noto: l’avvocato Guerrieri. Ognuno di loro ne aveva un’immagine nitida eppure diversa. In realtà io non l’ho mai, mai descritto. Vede? La verità di un libro è fatta da chi legge».
Quando si scrive ci si può permettere quattro o cinque versioni diverse: cancellature e correzioni. Invece quando si parla, vale la prima, sempre. La cosa, soprattutto in amore, può essere complicata.
«In realtà è più facile parlare che scrivere in modo preciso, perché a voce alta si va ad attingere
a una zona meno profonda di noi».
Non quando si parla d’amore. Lei è capace di farlo?
«Mi è difficile. Finisce sempre che lascio indietro cose importanti. Rimane ogni volta qualcosa di non detto, persino a me stesso. No, non sono bravo a parlare d’amore».
Ci si può esercitare. Oppure è impossibile imparare un linguaggio che non sai?
«È ovvio che se ami una persona, è bene che tu cerchi il modo di farglielo sapere. È una cosa chiara a tutti che però a tutti sfugge. Si tralascia quasi sempre di dire a una donna che cosa ci lega a lei. E sto parlando d’amore, non di innamoramento: quello è un’ubriacatura, in cui vale dirsi tutto e tutto viene detto, perché ogni cosa è dentro un’ebbrezza meravigliosa».
Perché è difficile parlarsi d’amore: quello comune, quello di tutti i giorni?
«Credo che sia per via del risentimento. L’inevitabile sottile rivendicazione che abita tutte le relazioni lunghe. È un sentimento vero di cui tutti ci vergogniamo un po’, perché ci sembra meschino, molto meno nobile, per esempio, dell’odio».
Secondo lei è vero il luogo comune secondo il quale uomini e donne parlano linguaggi diversi?
«Io so soltanto che capisco meglio le donne. Anzi no: gli uomini li capisco benissimo. Ma non mi piace il nostro ostinato tentativo di sopprimere la vita interiore. La nostra continua tentazione ad anestetizzarci, per non sentire noi stessi. Le donne sono più coraggiose, sanno stare in contatto con i loro sentimenti».
Tutto bello e buono, nel parlare al femminile?
«No. Di negativo c’è la vostra ansia di controllare il futuro. A cui invece bisogna imparare ad affidarsi, lasciare andare, permettere alle cose di essere come sono».
Poi c’è il silenzio. Lei lo sa utilizzare, mi pare.
«Ho usato molto il silenzio, quando, da magistrato, svolgevo interrogatori. È una tecnica molto potente, terribilmente manipolatoria. Cerco di non adoperarla mai nelle relazioni. Il silenzio può fare molto male».
Lei piace alle donne. È il fascino dell’affabulazione?
«Della notorietà. È vero: sono oggetto di qualche simpatia. Ma penso sia sbagliato abusarne. Trovo sia una cosa malsana indugiare in un rapporto dove tu non sei tu, ma il pupazzo che ti rappresenta nel mondo».
Il “pupazzo” è, in realtà, uno dei più letti scrittori italiani.
«Sono anche altre cose, spero.
Magistrato, scrittore, politico. Che cos’altro vuol essere?
«Ultimamente mi sto concedendo un’inedita possibilità di fare cose senza scopo. Leggere, disegnare, vedere intere serie tv con la stessa sfrenata passione con cui da bambino leggevo i fumetti».
Chiudo con l’ultima domanda che, forse, avrebbe dovuto essere la prima: perché scrive, Carofiglio?
«Per dar senso alle cose che altrimenti non ne hanno. E per testimoniare che i draghi possono essere sconfitti. Tutti: la paura, il caso, la malattia, la sfortuna, l’imbecillità, la cattiveria. Le cose della vita, insomma. Le parole addomesticano i mostri».
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