Francesca Chillemi: Sono felice solo se sono libera

È stata Miss Italia. Ha imparato il mestiere di attrice. L’amore l’ha portata a fare parte di una delle più note famiglie della moda, Francesca Chillemi vuole fare ancora tutto a modo suo: « Per il mio lavoro sono disposta a ogni sacrificio», dice a Grazia ora che torna in tv con Che Dio ci aiuti. C’è solo una persona per cui rinuncerebbe al set: la sua piccola Rania

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Francesca Chillemi per molti si chiama Azzurra, il nome di una delle protagoniste di Che Dio ci aiuti, la fiction Rai che l’ha resa famosa al grande pubblico. Per altri, invece, è l’ex Miss Italia che più rappresenta la bellezza del Sud, gli occhi grandi e neri, le labbra sensuali, il corpo sinuoso. Per altri ancora, è la mamma di Rania, la bambina nata a febbraio dalla sua unione con Stefano Rosso, figlio di Renzo, patron dell’azienda di abbigliamento Diesel. Per amore del suo compagno e per creare con lui una famiglia, Francesca si è trasferita da Roma a Bassano del Grappa, in provincia di Vicenza, una realtà del tutto diversa dalla sua terra natale, la Sicilia.
Ci eravamo incontrate proprio a Bassano, con lo sfondo delle montagne innevate, e la piccola Rania di sole tre settimane. In quell’occasione, ho conosciuto una ragazza sorridente e sensibile.
Me la ricordavo così Francesca Chillemi, dolcemente malinconica. Ho trovato, invece, una persona diversa. Determinata, fortemente indipendente, perdutamente innamorata di sua figlia.
L’appuntamento questa volta è a Roma, sulla via Cassia, alla vigilia della messa in onda della quarta stagione di Che Dio ci aiuti: con Elena Sofia Ricci nei panni di suor Angela, la serie torna dall’8 gennaio su Rai Uno alle 21,20 per dieci puntate. Ci incrociamo in una piccola piazza invasa dalle auto in sosta: un grande negozio di elettronica, una pasticceria dove più tardi andremo a bere centrifugati di carota e zenzero e un residence senza identità, come ce ne sono in ogni grande città. Durante i mesi delle riprese, l’attrice ha vissuto qui con la sua bambina e la tata. Mi viene incontro spingendo il passeggino, Rania mi accoglie con un largo sorriso che mostra i suoi primi due dentini, quelli di sotto. Francesca mi abbraccia. Inizia così, come un pomeriggio tra amiche, questa nostra intervista.

Quando ci siamo incontrate, Rania era piccolissima e lei non riusciva a parlare della sua bambina senza commuoversi. Era intenerita e forse anche un po’ spaventata dall’idea di essere mamma. Che cosa è cambiato da allora?
«Rania era appena nata. Ancora non mi rendevo conto di che cosa stessi vivendo e quanto sarebbe cambiata la mia vita. In questi mesi sono diventata una mamma davvero. Qualche settimana fa l’ho portata alla prima festa di compleanno. La prima di una lunga serie. Lei era pazza di gioia».

Si è trasferita dalla Sicilia a Roma dopo la vittoria di Miss Italia, nel 2003, aveva 18 anni. Ora vive a Bassano del Grappa per amore. Come è stato il ritorno
«Quando sono partita da Bassano, Rania aveva 50 giorni. Per mesi ho vissuto come una mamma single che lavora».

È tornata in forma dopo la gravidanza. Merito di una dieta speciale, della ginnastica o del dna?
«Ho sempre avuto un rapporto ambiguo con il cibo. Bisognerebbe introdurre l’educazione alimentare nelle scuole, imparare da bambini a nutrirsi nel modo giusto. Io ci sono arrivata solo adesso. Finalmente ho capito che per dimagrire basta seguire poche regole che sono all’opposto della privazione. La rinuncia aumenta il desiderio, ti fa soffrire e non serve. Se ho voglia di un piatto di pasta, me lo concedo, quel giorno sto semplicemente attenta a non aggiungere altri zuccheri. Con me, questo sistema ha funzionato, sono ritornata esattamente come prima di avere Rania, anzi, praticando yoga oggi sto anche meglio. Mai avuto un fisico così».

Quante volte alla settimana si dedica allo yoga?
«Tutti i giorni. In questa mia nuova vita ho scoperto il valore della costanza. In ogni senso, non solo nell’allenamento».

A Roma, oltre a fare la mamma e l’attrice, a seguire la dieta e le sessioni di yoga, come trascorre il tempo libero?
«Sul set dalla mattina alla sera. Porto con me Rania, che è adorata da tutto il cast . Poi, ritorniamo a casa. Mezz’ora di esercizio, la cena, a quel punto la mia giornata è terminata».

Lei è bellissima, non mi dica che in questi mesi non è stata corteggiata.
«Se lo sono stata, non me ne sono accorta. So di piacere ma sono una siciliana verace: io ho creato il mio nucleo, la mia famiglia con Stefano e Rania. Non sono alla ricerca di nient’altro, sono appagata. E, comunque, anche da ragazza, capitava spesso che scoprissi dopo anni che qualcuno si era invaghito di me. Ho anche un atteggiamento che blocca sul nascere le avances di chi non mi interessa. Chiudo il canale a priori e il messaggio arriva forte e chiaro. Non mi è mai capitato di trovarmi in situazioni imbarazzanti. Si fermano tutti sempre prima di doversi sentire dire: “No”».

La sua vita romana, quindi, è stata tutta set e residence?
«Il tempo è poco e cerco di investirlo al meglio per quello che mi interessa davvero. Per esempio, ho accettato di fare la madrina di Generazione Hashtag, un convegno sul cyberbullismo organizzato da Maura Manca, psicoterapeuta specializzata sull’infanzia e l’adolescenza nell’era di internet. È una persona che stimo molto e che mi dà qualche consiglio su come gestire i miei profili sui social network».

Che rapporto ha con il web?
«Faccio molta attenzione alle fotografie che posto. Su Instagram sono seguita da tantissime ragazze e non voglio nel modo più assoluto mandare messaggi sbagliati. Mi sento responsabile dell’immagine che trasmetto e che potrebbe avere effetti negativi. Non mi posso permettere di essere superficiale».

Secondo lei, quali sono i messaggi più pericolosi che un’attrice può trasmettere attraverso la propria immagine?
«L’eccessiva magrezza, per esempio. Ma anche la paura dei segni del tempo, la paura di invecchiare. Vedo colleghe che a 25-30 anni già corrono ai ripari tentando di rimanere sempre uguali, è una specie di autolesionismo. Non si rendono conto di quello che stanno combinando. Punturina dopo punturina, si trasformano in qualcosa che non ha più nulla a che fare con il loro viso e con il loro corpo. Io questo timore di cambiare e di invecchiare non lo sento. Al contrario, ho un’ammirazione sincera per le donne che si prendono cura del loro aspetto senza cercare di fermare il tempo. Per chi riesce a gestirlo meglio che può, ma in modo naturale. Sono sempre belle, ma in modo diverso rispetto a quando avevano 20 anni. E questa è la loro grande forza».

Lei non pubblica mai fotografie della sua bambina. Qualche volta una manina, oppure un’immagine di spalle, ma mai il viso. Perché questa scelta?
«Mia figlia ha la sua identità. Indipendente da me. Deciderà lei da grande se mettere le sue foto sui social, chi sono io per imporle di comparire sui giornali?».

Lei e il suo compagno condividete ogni scelta che riguarda Rania?
«Certo. Stefano è un padre molto presente. In questi mesi di trasferta, è venuto ogni weekend a Roma. Ci ha raggiunte ovunque si trovasse. Rania non ha vissuto il distacco. E lui è stato meraviglioso, so quanto gli è costato, quanto sia stato faticoso».

La viene a trovare anche sul set?
«Mai. Si annoia, non capisce che cosa ci sia di affascinante. Stefano non è un tipo da set, è un uomo dinamico, piuttosto va a correre. Non è uno che sta ad aspettare gli altri».

In questi mesi di lontananza ha sentito molto la sua mancanza?
«Moltissimo. Quando c’è lui, mi addormento tranquilla. Lo confesso, in questo periodo, a volte, mi sono sentita schiacciata dalla responsabilità di crescere una bambina da sola. Adesso, con il rientro a casa, tutto tornerà normale».

Se lui le avesse chiesto di rinunciare ai suoi impegni professionali per dedicarsi alla famiglia, lei come  avrebbe reagito?
«Ma come si fa a chiedere a qualcuno di mettere da parte il proprio lavoro? Stefano ha sempre saputo che avrei continuato a recitare, anche dopo la nascita di nostra figlia. Non capisco le donne che accettano una simile richiesta dai propri compagni o mariti. Potrei fare la mamma a tempo pieno se Rania ne avesse realmente bisogno, per lei farei, sì, qualsiasi cosa».

Diciamolo: potrebbe permettersi di non lavorare, la famiglia Rosso ha una solida tradizione imprenditoriale.
«Il fatto che Stefano abbia disponibilità economica, non c’entra niente con me. Se smettessi di lavorare, come vivrei? Facendo la mantenuta? No, è proprio un concetto che non mi appartiene. Già da ragazza mi pesava chiedere la paghetta ai miei genitori, figuriamoci, oggi con il mio uomo sarebbe impensabile. “Scusa Stefano, mi dai i soldi per i pannolini?”. “Scusa Stefano, mi compri un paio di scarpe nuove?”. Non sono abituata a farmi regalare le cose dagli altri. E comunque, lo so, sono fortunata: mia figlia sta sempre con me, la porto sul set, la vedo continuamente. In Diesel, la società della famiglia Rosso, esiste un asilo nido, ma purtroppo in Italia la maggior parte delle mamme che ha un impiego fuori casa non ha queste facilitazioni».

Vuole dire che lei si mantiene con il suo lavoro?
«Certo. Non potrebbe essere altrimenti. Io non lavoro per hobby, ma per garantire la mia indipendenza che viene prima di tutto. Non chiedo niente a nessuno da quando avevo 18 anni. Ho cominciato a lavorare a 14. Non c’è niente di ideologico, è una mia necessità profonda, il mio modo di essere. Io e Stefano abbiamo acquistato un appartamento a Milano, io ho pagato la mia metà. Me la sono guadagnata dopo anni di lavoro».

La casa di Bassano del Grappa, dove per anni ha vissuto Stefano da single, ha subìto qualche trasformazione? Ora si sente la sua presenza, il tocco femminile?
«Sì, piano piano, con calma. Pensi che sono riuscita persino a convincerlo a esporre delle mie fotografie. Ho usato una buona dose di furbizia: nella vita di una coppia ci vuole anche quella. Gliele ho regalate per il compleanno, a quel punto come poteva chiuderle in un cassetto?».

Ha rivoluzionato anche l’arredamento?
«Due giorni prima di partorire, ho visto Stefano rientrare dall’ufficio alle quattro del pomeriggio: non succede mai. L’avevano avvisato che io stavo sollevando mobili, spostando tutto, mi aveva preso una specie di frenesia creativa. L’ho visto preoccupato».

Oltre alla rivoluzione della casa di famiglia, ha altri progetti futuri?
«Penso sia arrivato il momento di fare cinema. Sto valutando alcune proposte. E, prima o poi, un altro bambino. Essere mamma è stato sempre il mio più grande desiderio, ma aspettavo di incontrare la persona giusta. L’ho trovata».

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Jodie Foster: "Faccio film per capire chi sono"

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Jodie Foster festeggia al cinema 60 anni da star. Nel thriller Vita privata, da oggi nelle sale, è una psicanalista tormentata. Ma a noi racconta come, grazie alla sua carriera, ha capito che le donne over 50 hanno tutte le carte per vincere

Come trascorre il giorno del suo compleanno una diva planetaria come Jodie Foster, sotto i riflettori dall’età di tre anni? «Lavorando», mi risponde accomodata sulla poltrona, mentre sorseggia un cappuccino. Neanche a farlo apposta la incontro proprio il giorno in cui compie 63 anni e mi confida che finita l’intervista andrà con gli amici a festeggiare. Sessant’anni di carriera tondi, fresca del Golden Globe vinto a gennaio per la sua performance nella serie True Detective: Night Country, la regista e attrice torna al cinema con il nuovo film di Rebecca Zlotowski Vita Privata. Presentato in anteprima al Festival di Cannes e dall’11 dicembre al cinema, la vede calarsi nei panni della nevrotica psichiatra Lilian Steiner, ossessionata da un caso molto delicato.

Che rapporto ha con il passare del tempo?

«Buono. Mi sento più felice che mai in vita mia».

Davvero?

«Parlo di una gioia profonda, non di quello che mi accade giorno per giorno. Le cose della vita, belle e brutte, capitano. Ma vivo un momento in cui il lavoro sta andando sempre meglio e ho superato l’ansia delle domande: “Sarò in grado di farcela con le mie forze?”, “Avrò una famiglia?”. Tutte questioni archiviate, per fortuna non devo più preoccuparmene. Da giovane passavo tanto tempo a pensare a me stessa, dopo una certa età mi sono concentrata sulle storie degli altri, è più facile e divertente».

Anche in Vita privata ascolta le storie degli altri.

«La mia Lilian non è una psichiatra risolta, anzi, è parecchio nevrotica. Non riesce a comprendere come sia possibile che la sua paziente in cura da nove anni (Virginie Efira, ndr) si sia potuta uccidere. Non ci crede, non ammette la possibilità che lei, in quanto psichiatra, sia stata così sorda».

Ritiene che come società abbiamo perso il potere di ascoltare?

«Mostrare curiosità verso gli altri è tutto. Noi attori siamo allenati all’ascolto, per lavoro siamo chiamati a calarci nelle vite degli altri ed è una bella abitudine mettersi nei panni altrui, un esercizio che possiamo fare tutti. Ci aiuterebbe come società».

Dal titolo del film alla realtà, essendo conosciuta in tutto il mondo sin da piccola come ha fatto a proteggere la sua, di vita privata?

«Sforzandomi sempre molto. Lavorando sin da bambina sapevo di dovermi proteggere: volevo andare a Disneyland, ma senza le telecamere che mi seguissero. Volevo essere libera di andare al supermercato, o prenotare un volo senza che nessuno lo facesse al posto mio. Ci ho sempre tenuto a mantenere viva la mia indipendenza, tracciando una linea netta tra la mia vita pubblica e quella privata. Oggi sono contenta di aver seguito quell’impulso».

Nel film la sentiamo sfoggiare un francese fluente…

«Mi fa sentire più sicura di me, rispetto all’inglese. Sarà che devo la passione per il francese a mia madre, che me lo fece studiare». 

Come mai?

«Non aveva mai viaggiato fuori dagli Stati Uniti fino ai cinquant’anni, ma la cultura europea l’affascinava. Comprava di continuo riviste e libri su Parigi e Napoleone, addirittura dipinse le pareti di casa con i colori delle antiche pietre romane. Quando ero bambina fece il viaggio dei suoi sogni e andò in Francia, con un tour in bus di quelli turistici».

Che cosa le disse al ritorno?

«"Jodie, impara il francese e diventa una grande attrice francese". Era il suo modo di dirmi che sognava per me una vita più ampia di quella americana. Anche perché erano gli anni 70, al potere c’era Nixon, non era facile essere americani. A mia madre piaceva l’idea che potessi scegliere di essere libera di inventarmi una vita tutta mia».

Ha fatto lo stesso con i suoi figli?

«Dovrebbe chiederlo a loro (Charlie e Kit, 27 e 24 anni, ndr). Intanto uno di loro sa parlare benissimo il tedesco, le mie radici tedesche ne sono contente».

Che rapporto ha con la psichiatria?

«Sempre stata scettica, ma una volta mi sono fatta ipnotizzare».

Com’è andata?

«Mi ripetevo: "Ma perché pagare 90 dollari a un tipo quando potrei smettere di fumare gratis oggi stesso?", eppure ha funzionato. Non amo la psicanalisi, per quanto la trovi attraente da un punto di vista cinematografico: non mi piace Freud, in America nessuno lo stima più, era un grandissimo sessista. Trovo però importante che al cinema si parli di salute mentale».

E che si mostri come le donne over 50 abbiano desideri, diritto al piacere e una vita sessuale appagante, come la sua Lilian con l’ex marito interpretato da Daniel Auteuil: perché tutto questo al cinema si vede ancora poco?

«Dovremmo parlare per ore della rappresentazione del corpo femminile. Purtroppo i pregiudizi sulle donne dopo una certa età sopravvivono, non solo al cinema. Ma sono speranzosa: registe come Zlotowski dimostrano di voler raccontare le donne per quello che sono, con tutti i loro desideri. La mia Liliane non è solo una psichiatra, una madre e una nonna, ma una donna che si esprime anche attraverso il  corpo».

Con Auteuil avete avuto un intimacy coordinator?

«È una figura che ho scoperto sul set di True Detective. Ho detto: "Che lavoro pazzesco, dov’eri tu quando avevo 16 anni?". Ormai io e Auteil abbiamo superato i 60 e abbiamo risolto senza, ma sono contenta che questa figura esista, era importante che ci fosse».

Che cosa di lei non hanno mai capito finora?

«Non sono seria come credono. Non ho mai capito perché il pubblico mi affibbi quest’aura di serietà, io sono una persona leggera. Certo, se mi fanno domande serie rispondo in modo serio e amo fare lavori significativi, ma se sapeste com’è la mia giornata ideale cambiereste idea».


Com’è la sua giornata ideale?

«Sveglia presto, sci ai piedi, la sera una partita di calcio in tv e una cena gustosa. Altro che tormentata, sono una persona felice e ottimista verso il futuro».

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Come trasformare l'eredità in un'opportunità per i propri figli

Elena Valzania x Alleanza
L'eredità di famiglia può assicurare un sostegno economico ai propri cari. Basta sottoscrivere una polizza di investimento adeguata, affidandosi a un bravo consulente

Elena Valzania ha 57 anni e vive a Ravenna, in una casa che ha ereditato dalla sua famiglia. Cresciuta in un contesto economicamente stabile, è stata segnata più di quanto pensasse da ciò che ha ricevuto in eredità: non solo beni, ma un intero modo di vivere e pensare il denaro. «I nostri familiari conducevano vite semplici, risparmiavano e investivano».

A un certo punto, la malattia entra nella sua storia familiare e si intreccia alle questioni economiche. Il padre di Elena si ammala gravemente, per poi morire quando lei ha 20 anni. Insieme con i beni materiali, Elena riceve anche un’eredità invisibile: l’idea che il lavoro debba essere per forza fatica. Un peso silenzioso che la accompagna a lungo, anche dopo la laurea in Farmacia, quando si avvicina all’omeopatia e inizia a lavorare. «Rispetto allo studio, lavorare mi sembrava facilissimo, ma proprio per questo mi pareva che non valesse abbastanza». E infatti, quando viene assunta in una cooperativa di Bologna, non negozia lo stipendio.

La sua carriera aziendale si interrompe durante la sua prima maternità: l’azienda viene acquisita e, al rientro dal congedo, capisce che stanno cercando di spingerla alle dimissioni.

Da allora, Elena non è più rientrata nel mondo del lavoro “ufficiale”. I soldi necessari ad andare avanti, però, in un modo o nell’altro, entrano. Ed Elena procede nella sua vita, con una leggerezza sconosciuta ai suoi familiari. Che le è concessa, però, anche grazie all’eredità materiale ricevuta da loro: «Mio marito e io abbiamo sempre avuto la mentalità di investire sulla nostra famiglia. Tuttora siamo concentrati sul mantenere i nostri tre figli agli studi e i beni di famiglia sono un mezzo per sostenere questa nuova generazione».

Parola all'esperta: le polizze come strumento di tutela

RISPONDE ELENA BELLUCCI DELL’AGENZIA ALLEANZA DI EMPOLI (FI)

1) Come si gestisce un’eredità ricevuta?
«Ricevere un’eredità può risultare persino destabilizzante, specie se si tratta di grandi somme, e senza una gestione attenta il rischio è di sperperare il patrimonio o di non trarne vantaggio. È insomma necessaria un’attenta pianificazione che parta dai bisogni dell’individuo o della famiglia, ragione per cui può essere molto utile affidarsi a un buon consulente assicurativo e finanziario. Tra le soluzioni possibili ci sono le polizze di investimento, che combinano l’opportunità di investimento con la componente assicurativa, che offre una protezione sul capitale o sul rischio di vita. Ne esistono di diversi tipi: con quelle a capitale garantito, per esempio, si ha la certezza che il capitale che sarà restituito all’uscita dall’investimento non sarà inferiore a quello versato».

2) Che vantaggi hanno, rispetto alle altre soluzioni? 
«Le polizze da investimento sono nate per chi desidera assicurare un sostegno economico ai propri cari, anche in caso di decesso, con l’aggiunta di un rendimento. Offrono però anche altri vantaggi: uno dei più importanti sta nel fatto che il capitale così collocato non rientra nell’asse ereditario e non viene considerato nel calcolo dell’eredità ai fini della tassa di successione. In caso di morte del contraente le somme passano al beneficiario, nel rispetto delle quote di eredità legittime disponibili, e questo rende la polizza un ottimo strumento per tutelare le coppie non sposate o i minori».

Testo di Annalisa Monfreda
*co-fondatrice di Rame, rameplatform.com

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«Quanto ti dicono: "se non puoi violentare tua moglie, chi puoi violentare?"»: l'editoriale di Silvia Grilli

Silvia Grilli
Il nuovo numero di Grazia è ora in edicola. Ecco l'editoriale della Direttrice Silvia Grilli

In una scena di C'è ancora domani, la protagonista Delia, costretta dal marito brutale a un rapporto sessuale, toglie un granellino di polvere dal comodino, completamente estranea a quanto le sta accadendo. La dissociazione è un'autodifesa comune tra le vittime di stupro.

Una ragazza che intervistai mi raccontò che, durante la violenza, cercava di ricordare le parole delle sue canzoni preferite. Era come congelata nel panico: non urlò, non si mosse, terrorizzata di subire ulteriori aggressioni.

Jessica Mann, una delle testimoni al processo contro il produttore stupratore Harvey Weinstein, ha ricordato di essere rimasta immobile, mentre lui la violentava. Mann ha citato in tribunale uno studio scientifico sulle difese messe in atto da esseri umani e animali. Questi ultimi si fingono morti di fronte a un attacco, perché così i predatori sembrano perdere interesse. Ma, per ironia della sorte, è proprio l’immobilità della vittima a mettere in dubbio la credibilità delle donne nei dibattimenti per stupro. «Non si è mossa, quindi vuol dire che ci stava».

Giorgia Meloni ed Elly Schlein hanno voluto una legge per cambiare la vecchia norma, secondo la quale è reato solo se si viene costrette ad atti sessuali con modi violenti o minacce. Le due leader condividono l’idea che il consenso debba essere dichiarato all’inizio e durante il rapporto.

L’atto sessuale deve avvenire per libera scelta, non per ricatto, abuso di potere o quando la volontà è ridotta per effetto di alcol o sostanze. E non è consenso solo perché si era detto «sì» in passato o perché si è sposati. Il silenzio o l’inerzia non sono acquiescenza, ma una conseguenza della violenza stessa. E ci si può tirare indietro, anche dopo aver, inizialmente, condiviso l’approccio.

La legge, nata dal patto Meloni-Schlein, è stata approvata all’unanimità dalla Camera dei deputati. Ma al Senato, nella Giornata contro la violenza degli uomini sulle donne, è stata bloccata e rinviata. Il ministro Matteo Salvini sostiene che «Il consenso preliminare lascia spazio a vendette personali che intaserebbero i tribunali».

Cioè, la magistratura si ritroverebbe con orde di donne che mentono. Sinceramente, non ho mai visto in Italia tutta questa folla di femmine pronte ad accusare per incastrare qualcuno. Sinceramente, mi pare il contrario: le vittime non denunciano perché conoscono bene gli interrogatori e il calvario che dovrebbero sopportare se lo facessero. Sinceramente, mi sembra una bocciatura per paura di perdere i privilegi maschili.

In una scena del film After the Hunt - Dopo la caccia, Julia Roberts dice a una studentessa che accusa un professore di stupro: «Non denunciare, altrimenti diventerai radioattiva. Il nostro sistema è dominato dai maschi. Ne avrai bisogno quando chiederai lavoro, e non lo otterrai perché saranno terrorizzati che un giorno tu possa accusare anche loro».

La notte del weekend scorso, a Milano, una ragazza ha denunciato per violenza un giovane con il quale si era allontanata. «Mi ha violentata», ha detto. «Era consenziente», ha ribattuto lui. Un consenso che fino a un certo punto c’è stato. Poi non più.

Lo stupro non è stupro solo se ti costringono con la pistola puntata alla tempia. Lo è anche quando io non voglio o non voglio più. Vale anche nel caso di rapporti sessuali tra conviventi: solo «sì» è «sì».

Anni fa, un senatore californiano si oppose a una legge contro lo stupro nel matrimonio, dicendo: «Se non puoi violentare tua moglie, chi puoi violentare?». Ecco, è proprio questo il concetto: né il corpo di tua moglie né quello della ragazza che si allontana con te, poi cambia idea, ti appartengono. Il loro corpo è loro, non tuo.

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GRAZIA presenta il numero straordinario "L'arte è donna" con direttrice ospite Patrizia Sandretto Re Rebaudengo

cover Grazia 4 dicembre
Questa edizione speciale celebra il talento e il coraggio di artiste, galleriste, progettiste e collezioniste

Grazia, il magazine di Reworld Media diretto da Silvia Grilli, presenta il numero straordinario L'arte è donna. Il talento e il coraggio di artiste, galleriste, progettiste, collezioniste sono il filo conduttore di questa edizione speciale che ha come direttrice ospite Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, fondatrice e presidente della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, collezionista e mecenate riconosciuta a livello internazionale.

“Nella storia dell’arte le donne sono state cancellate o relegate al ruolo di mute muse ispiratrici, tagliate fuori dalle scuole, dalle botteghe degli artisti”, dichiara Silvia Grilli, direttrice di Grazia. “Con questo numero abbiamo voluto invece raccontare il talento femminile che c’è e c’è sempre stato, la creatività, pervicacia e abnegazione delle artiste donne, il loro sguardo diverso. Quando ho chiesto a Patrizia Sandretto Re Rebaudengo di curare questo numero di Grazia, ho trovato un’interlocutrice appassionata, capace di raccontare nel modo migliore quel genio che non è appannaggio esclusivo degli uomini”.

“Questo numero speciale contiene storie, opere e luoghi che raccontano la mia vita con l’arte contemporanea, sul filo di una grande passione, un sogno, una visione che seguo e inseguo da oltre trent’anni”, spiega la direttrice ospite Patrizia Sandretto Re Rebaudengo. “Fra queste pagine, quel filo rosso è diventato un progetto a più voci che ha unito le forze per parlare dei cambiamenti del mondo delle donne: artiste, collezioniste, direttrici di musei, architette, scienziate. Nessun separatismo, le storie che abbiamo scelto, insieme con la direttrice Silvia Grilli e lo staff di Grazia, superano la tradizionale categoria di ‘femminile’, nell’editoria così come nell’arte, per portarci in un territorio di ricerca, uno spazio plurale, aperto sul presente, sensibile al diritto all’autodeterminazione, al di là di nascita e appartenenze”.

La copertina del numero è un’opera della pittrice e fotografa polacca Paulina Olowska intitolata Weeds (2017 - Courtesy Fondazione Sandretto Re Rebaudengo) che attraverso un nudo femminile - genere che nella storia dell’arte è stato per lo più appannaggio dello sguardo maschile - reclama la propria libertà di espressione.

Per raccontare il suo percorso, Patrizia Sandretto Re Rebaudengo si è affidata alle domande attente del giornalista Dario Maltese e insieme hanno parlato di arte, emozioni e futuro. Si prosegue poi con Hans-Ulrich Obrist, curatore d’arte e direttore artistico delle Serpentine Galleries di Londra, che intervista per Grazia l’architetta messicana Frida Escobedo, che realizza progetti nati dal suo bisogno di comunicare.

E il mondo scoprì le artiste è invece un’inchiesta approfondita sui grandi talenti dimenticati dalla storia. Pittrici e scultrici hanno infatti dovuto lottare e affrontare una moltitudine di ostacoli che non hanno diminuito il loro valore, ma spesso ne hanno cancellato traccia. Storiche dell’arte e curatrici stanno così adottando nuove strategie per restituire loro visibilità, mettendo in atto una vera e propria rivoluzione creativa.

Anche la moda è in linea con il tema portante del giornale: i bijoux americani degli Anni 30 collezionati da Patrizia Sandretto re Rebaudengo saranno abbinati a look liberi e anticonformisti e avranno come sfondo le opere della pittrice Pia Krajewski. 

Sulle pagine della rivista ci sono poi due artisti che vanno oltre le definizioni di genere, lasciando spazio alle loro visioni: si parla di arte e natura con Jota Mombaça e di linguaggi e inclusione con Diana Anselmo.  

Anche il rapporto tra arte cinema è strettissimo: il grande schermo ha raccontato le vite e il tormento dei geni della pittura e Paola Malanga, direttrice artistica della Festa del Cinema di Roma, ha scelto per Grazia le pellicole da non perdere.

Nella sezione dedicata alla cultura, con la collaborazione della Fondazione Sandretto re Rebaudengo, vengono spiegati i percorsi artistici formativi e segnalate le 10 mostre dell’inverno da non perdere che guidano i lettori e le lettrici in un viaggio di linguaggi diversi.

Infine uno spazio è dedicato anche alle eccellenze mediche al servizio della salute delle donne della Fondazione IEO-MONZINO ETS, di cui Patrizia Sandretto Re Rebaudengo è presidente. A parlare delle conquiste nelle terapie e nella prevenzione decisive per le pazienti sono la specialista di senologia Viviana Galimberti e la cardiologa Daniela Trabattoni.