Fortunato Cerlino: «La vita non si ferma a Gomorra»
In tv Fortunato Cerlino è il boss della serie cult che torna dal 10 maggio. Ma lui, che nei quartieri della camorra è cresciuto, ora ha deciso di cambiare orizzonte. Per esempio recitando nel prossimo film di un certo Tom Hanks
Occhi di ghiaccio che incutono terrore. Ho in mente lo sguardo spietato del boss Pietro Savastano che ordina crimini, sfida gli avversari, impone la sua legge di morte. E cerco quello sguardo quando incontro Fortunato Cerlino, l’attore che nella fortunata serie Gomorra, ispirata al bestseller Mondadori di Roberto Saviano (il 10 maggio su Sky Atlantic partirà la seconda stagione) interpreta il capoclan, un genio del male che ha conquistato gli spettatori italiani e quelli di oltre 100 Paesi stranieri. Ma trovo lo sguardo limpido e aperto di un uomo gentile, cordiale, palesemente in pace con se stesso e il mondo. Un bel contrasto con il personaggio che l’ha reso famoso.
«Noi attori ci affidiamo alla tecnica», mi spiega con un sorriso Fortunato, napoletano, 44 anni. «E io sono feroce solo sul set. Nella vita sono completamente diverso da Savastano». Intanto, preparatevi a veder tornare in azione il boss che nel secondo ciclo di Gomorra (regista e supervisore Stefano Sollima) esce di prigione e tenta di riprendere il controllo del suo impero criminale. «Ma non sarà facile», mi anticipa Fortunato, arrivato al successo dopo i 40, alle spalle tanto teatro e una vita densa di colpi di scena. Me la racconta mentre cresce l’attesa per la serie in cui i clan continuano a sfidarsi e, dopo la morte di Donna Imma, entra in gioco una nuova, spietata lady del crimine interpretata dall’attrice Cristina Donadio.
Quanto è cambiato, Cerlino, il suo boss?
«Moltissimo. Quando esce dal carcere, Pietro trova un mondo trasformato. La sua amata Imma non c’è più, il suo potere è stato preso d’assalto, il figlio Genny non è più lo stesso. Ora Savastano ha contro anche il figlioccio Ciro e deve fare i conti con la nuova realtà».
Come riesce a interpretare il suo personaggio con tanta credibilità?
«Attingo ai miei ricordi. Vengo da un ambiente popolare. Sono nato e cresciuto a Pianura, un quartiere della periferia di Napoli che ospita una discarica finita spesso nelle cronache: è stata perfino incendiata. Nella mia giovinezza ne ho viste di tutti i colori».
Ha conosciuto anche dei camorristi?
«Certo, li abbiamo incontrati tutti. Ho imparato presto a distinguere tra boss e manovalanza. Nel mio personaggio ho voluto ritrarre la nuova generazione criminale».
In che cosa il terribile Pietro Savastano si distingue dagli altri boss visti al cinema o alla tv?
«È estraneo ai luoghi comuni. Niente eccessi o violenza esplicita. Usa più la mente che il mitra, programma i crimini, ma lascia che siano gli altri a sporcarsi le mani. Sembra un uomo d’affari. Per questo fa ancora più paura».
Lei come ha fatto a salvarsi dal suo quartiere?
«Mi ha protetto la mia famiglia, umilissima, ma di saldi valori morali. Sono cresciuto in una specie di bolla fatta di onestà e rettitudine. Mio padre, di origine contadina, si è sempre spaccato la schiena per portare il pane a casa. Non ha avuto bisogno d’indottrinarmi, gli è bastato darmi il buon esempio».
Che cosa ha spinto quel bambino della periferia napoletana a diventare attore?
«All’inizio volevo far capire ai miei quanto valevo. Ho cominciato a fare teatro a 17 anni, ma a 22 mi sono accorto che ero spinto da motivazioni un po’ troppo egoistiche, cercavo solo la mia affermazione personale. Allora ho mollato tutto e sono partito per Londra».
Che esperienze ha fatto in Inghilterra?
«I mestieri più disparati, ho lavorato perfino come cameriere nei grandi magazzini Harrod’s. Ma, prima di partire, avevo sostenuto un provino per uno spettacolo teatrale in Italia. Quando mi hanno informato che lo avevo superato, sono tornato. Avevo capito che la recitazione era la mia strada, ma ero ormai un altro uomo, più generoso e consapevole».
Immagino che il successo mondiale della serie Gomorra abbia rivoluzionato la sua vita.
«Non più di tanto. Sono cambiati solo gli aspetti concreti del mio lavoro. Oggi, come attore, ho un valore sul mercato e so che la mia presenza aiuta a realizzare certi progetti. Ma anni di teatro mi hanno insegnato che il successo è relativo. È una favola che non deve creare dipendenza. Sono arrivato a questa consapevolezza anche grazie al buddhismo tibetano che pratico da anni».
Non ha mai pensato che il suo Don Pietro, come spesso succede ai personaggi negativi ma affascinanti, potesse suscitare ammirazione?
«Ho fatto attenzione a prendere le distanze dal ruolo. Ho cercato in ogni modo di far capire al pubblico che Savastano è frutto del mio lavoro di attore, ma io sono lontano anni luce da lui. Credo che il messaggio sia passato: i fan che mi chiedono l’autografo e i selfie mi chiamano Fortunato, non Pietro».
Sappiamo tutto del suo boss, ma lei che tipo è, che vita fa?
«Abito a Roma, in periferia: s’immagina quanto mi potrei annoiare in un quartiere borghese? Non ho figli e vivo felice con la mia compagna Antonella Sava, che fa la photo editor in una rivista. Amiamo viaggiare, leggere, ascoltare musica e portare a spasso il nostro cagnolino Michelangelo. Facciamo una vita semplice, che ci somiglia».
Felicità è anche dire qualche no?
«Dopo il successo della prima stagione di Gomorra, ne ho detti tanti: non sa quanti camorristi volevano farmi interpretare! Ma abbiamo preferito rinunciare ai soldi per aspettare l’occasione giusta. Ottima decisione: ho girato le serie internazionali Hannibal e Britannia, il film Inferno di Ron Howard con Tom Hanks (arriverà in autunno, ndr)».
Se le chiedessi chi è oggi Fortunato Cerlino, che cosa mi risponderebbe?
«C’era una volta un bambino che si aggirava per Pianura con la testa piena di sogni. Oggi sono l’adulto che li sta realizzando».
Ammetterà che le hanno dato un nome profetico.
«Sono felice di chiamarmi Fortunato come il mio nonno contadino. È il mio eroe».
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