Filippo Timi: «Sono me stesso solo quando vi emoziono»
Sul set Filippo Timi si trasforma, canta, balla e non si ferma mai: «Lo faccio per rivivere la gioia che provavo da bambino», dice. E a Grazia racconta come riesce a farci vedere i colori anche quando è il protagonista di uno show in bianco e nero
Danze scatenate, monologhi e duetti, balli lenti come si usava cinquant’anni fa, vecchi successi reinterpretati dalle popstar di oggi Nina Zilli, Malika Ayane, Elio, Neffa, Marco Mengoni. E al centro della scena, in veste di istrionico conduttore-mattatore, lui: Filippo Timi, l’attore italiano più spericolato, 41 anni di passioni, furori, paradossi, sorprese.
«Che felicità, mi sono reinventato ancora una volta», mi dice allegramente trafelato Filippo parlandomi di Tadà!, il mini-varietà musicale, sette minuti a puntata, che condurrà su Deejay Tv (canale 9 del digitale terrestre) dal 15 febbraio alle ore 21. Lo intercetto a Milano in una rara pausa dal lavoro, mentre la sua mente continua a inseguire pensieri, sogni, progetti. Il telefono squilla, i fan lo riconoscono, gli amici lo fermano per parlargli: in tanti anni che seguo la sua carriera, non l’ho mai visto in modalità “spento”, o del tutto soddisfatto, o in pace con se stesso. Timi è felicemente, permanentemente ostaggio di quel «ribollire creativo» (parole sue) che lo obbliga a sperimentare, provocare, rischiare. Umbro di nascita, attore, scrittore e poeta, più che un artista è un acrobata dell’espressione.
E se lo avete amato nella serie di Sky I delitti del BarLume, o fate la coda a teatro per applaudirlo nel dramma di Henrik Ibsen Casa di bambola (in scena fino al 24 febbraio al Franco Parenti di Milano) in cui interpreta i tre personaggi, oppure preparatevi a vederlo cambiare pelle ancora una volta.
Cinquant’anni fa non era ancora nato, che cosa può ispirarle quell’epoca?
«Un’ammirazione totale. Sono pazzo dell’estetica degli Anni 60. Li ho recuperati grazie a mia madre, che mi costringeva a guardare vecchi varietà come Canzonissima e Studio Uno: presentava la cantante Mina, gli ospiti erano di alto livello e tutto era armonico, elegante, scintillante. Guardavo la tv con gli occhi sgranati e sognavo».
La sua nuova sfida televisiva è all’insegna della nostalgia per un mondo perduto?
«No, sto benissimo nel presente e, se avessi la macchina del tempo, non tornerei indietro. Ho accettato di condurre Tadà! perché mi permette di far rivivere la mia infanzia in bianco e nero. Sono nato in provincia, in una famiglia povera. Sono stato un bambino grasso e balbuziente. Ma ero sempre allegro e ho dei ricordi bellissimi».
E i colori quando sono arrivati nella sua vita?
«Mi bastava immaginarli, ho sempre volato con la fantasia. I miei genitori facevano gli operai: uno stipendio se ne andava per il mutuo e le spese di casa, l’altro serviva a pagare la tata che badava a me e a mia sorella Cristina mentre i miei erano fuori a rompersi la schiena. Eppure la nostra vita era serena».
Che cosa aveva il potere di rallegrarvi?
«Le canzoni. Da noi c’era sempre una voce accompagnata dalla musica: usciva dalla tv o dalla radio, cantavamo noi stessi. Le canzoni, per me, hanno il profumo delle emozioni perdute. Una, specialmente, ha segnato la mia giovinezza: Ninna nanna del duro di Fred Buscaglione. Dice: “Vacci piano pupo con gli strilli, fa’ la nanna, questa sera dormi senza mamma”. Decisamente anticonvenzionale».
In Tadà! duetterà con Nina Zilli nel Surf delle mattonelle: ricorda il suo primo lento?
«Sono nato nel 1974 e ho vissuto in pieno l’epoca delle feste e dei primi amori. E il primo guancia a guancia l’ho ballato con la mia fidanzatina dell’epoca. Mi sudavano le mani dall’emozione».
L’ha più rivista quella ragazza? Come si chiama?
«Lasciamola stare, oggi è sposata e ha quattro figli meravigliosi. Facevamo parte del giro della parrocchia, che oggi ha creato un gruppo su WhatsApp, coordinato da Suor Carla. Qualche tempo fa mi avevano convocato per una rimpatriata, ma non ho potuto partecipare perché avevo il debutto di Casa di Bambola».
Ma le fa piacere, Timi, rievocare il suo passato in provincia o preferisce guardare avanti?
«Ogni tanto capita di ritrovarsi e sono contento di vedere i miei compagni d’infanzia. Ma la mia vita ha preso ormai un’altra strada. Ho pochi amici veri e li amo incondizionatamente al punto di soffrire di crisi di abbandono: se mi dici che mi chiami e poi non lo fai, ci sto male. C’è poco da fare, io sono così e, piuttosto che fingere, preferisco star da solo».
È un bel momento, questo, per lei?
«Bellissimo. Il lavoro non potrebbe andare meglio: essere ogni sera tre personaggi di Ibsen è un’impresa tostissima, ma che soddisfazione quando scatta l’applauso. E poi sono contento che I delitti del BarLume abbia avuto tanto successo, facendo gli stessi ascolti della serie Gomorra. Se i produttori vogliono girare un’altra stagione all’isola d’Elba, ho già pronto il costume da bagno».
I suoi successi sono di dominio pubblico, ma io voglio sapere del suo privato: è innamorato, Filippo?
«È ovvio che lo sia. Diceva Konstantin Sergeevič Stanislavskij, l’ideatore del più famoso metodo di recitazione, che un attore per entrare in scena deve essere innamorato, altrimenti non riesce a emozionare il pubblico. Ma se vuole che le riveli l’oggetto del mio amore, può aspettare fino a dopodomani. Sono cavoli miei. Senza offesa, eh?».
Mi dica allora che cos’è che la fa arrabbiare.
«La chiusura mentale, il pregiudizio. Dopo lo spettacolo, vengono gli spettatori e mi dicono: “Non mi sono annoiato nemmeno un secondo, eppure credevo che Ibsen fosse una barba”. Allora vado in bestia: perché mai un classico dovrebbe annoiare? Finché la penseremo così, non andremo da nessuna parte».
Anche se è un po’ ingenuo chiederlo a lei che ha una carriera affermata e mille progetti, c’è un sogno nella sua vita?
«Voglio continuare a commuovere. Un tempo mi divertivo a provocare, oggi ho voglia di costruire, magari con la dolcezza. I sentimenti vengono al primo posto e non se ne discute mai abbastanza. Sulla scena e nella vita, non potrei vivere senza».
Saluto e lascio il mondo di Timi in cui tutto, da uno sguardo a una stretta di mano, fino a una trasmissione televisiva, può trasformarsi in un’emozione. A volte estrema, come la sua esperienza di artista per cui arte e vita non hanno confini.
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