Federica Pellegrini: Prima vengono le medaglie, poi l’abito bianco

Quando quest’estate è rimasta fuori dal podio olimpico, Federica Pellegrini stava per dire basta. Poi la nuotatrice italiana dei record ha trovato la forza di sconfiggere l’avversario che teme di più: «La paura di deludere me stessa». Ora racconta a Grazia perché si è data la possibilità di riprovarci e anticipa qui i prossimi traguardi che vuole raggiungere. Dentro e fuori dall’acqua

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Prendi una domenica di sole a Livigno e aggiungi un’ora di chiacchiere in cui riaffiorano tante emozioni. Il risultato è una Federica Pellegrini che non ti aspetti. La più forte nuotatrice italiana di sempre ti svela che da bambina voleva fare l’archeologa, che vive in una casa bianca piena di ricordi e ammette di essere una di quelle fidanzate che ha ceduto alla tentazione di guardare nel cellulare del suo uomo, il collega Filippo Magnini. Tra le confidenze sportive Federica ancora si emoziona ricordando l’adrenalina che l’ha accompagnata ai podi che l’hanno resa la nuotatrice azzurra più medagliata e il dispiacere per il rifiuto di Roma di candidarsi alle Olimpiadi del 2024.

La incontro dopo qualche mese dal momento peggiore di questo 2016, quello del quarto posto ai Giochi Olimpici di Rio, dove era stata la portabandiera dell’Italia proprio nel giorno del suo 28° compleanno, lo scorso 5 agosto. Era pronta per puntare al podio, ma qualcosa è andato storto nei 200 metri stile libero ed è rimasta senza medaglia. Per qualche giorno, sembrava che la sua intera carriera dipendesse da quello sfortunato piazzamento. C’è chi ha pensato a un ritiro, una vita fuori dalle vasche, magari ad altri progetti (il matrimonio con Magnini?). Poi Federica è tornata l’atleta che conosciamo e ha deciso di guardare avanti con ancora maggiore determinazione. Prima di salire sull’altare, deve ancora conquistare qualche medaglia.

«Non voglio concludere la mia carriera con il ricordo della gara di Rio», dice con tono sicuro. «Sapevo bene che sarebbe stata una lotta all’ultimo centimetro e purtroppo nel nuoto si fanno i conti con i centesimi. Diciamo che avrei preferito tornare a casa con una medaglia olimpica e chiudere il cerchio della mia lunga carriera con un bel fiocchetto. Purtroppo non è andata così».


Dopo un’estate di pausa lei ha detto di voler tornare a vincere. Perché?

«Se avessi scelto di abbandonare il nuoto, avrei lasciato qualcosa di incompiuto dentro di me e sarebbe stato un peso troppo grande. Mi sto dando la possibilità di riprovarci».


Ha più paura di scontentare se stessa o gli altri?

«Quella di deludere me stessa è sempre stata al primo posto».


Quali saranno i prossimi appuntamenti in cui la vedremo gareggiare?

«Il mondiale di Budapest, in Ungheria, in agosto. Devo vedere come reagirà il mio fisico a determinati carichi di lavoro e poi si penserà al futuro, Olimpiadi di Tokyo 2020 comprese».


Avverte mai la preoccupazione che la carriera sportiva possa far slittare altri suoi progetti di vita?

«Sicuramente sì, ma la decisione di proseguire con il nuoto l’ho presa per il bene di me stessa».


Colleghe come la tuffatrice Tania Cagnotto e la tennista Flavia Pennetta hanno scelto di accantonare lo sport per costruire una famiglia. Che cosa ne pensa?

«Credo si tratti solamente di scelte molto personali. Il momento in cui si sente di voler smettere è soggettivo. Conosco bene Flavia e quando ha deciso di lasciare, dopo gli Us Open, ero con lei. Lo sport regala soddisfazioni ma anche infortuni, anni di fisioterapia e un fisico che invecchia e non recupera rapidamente come quello delle avversarie molto più giovani di te. Flavia ha vinto quello che voleva vincere, rimarrà nella storia e ha fatto bene a smettere in quel momento».


Anche lei ha fatto incetta di successi: titoli nazionali, europei, mondiali, olimpici. Qual è la medaglia che porta più di tutte nel cuore?

«L’oro di Pechino 2008. Vincere l’Olimpiade è il punto più alto che un atleta possa raggiungere. Ma a pensarci bene ce ne sarebbe anche una seconda».


Quale?

«Vincere i due ori a Roma, nel 2009, gareggiando in casa. È stata una settimana che non dimenticherò mai. Il calore e il tifo del mio Paese, il boato dello stadio quando siamo entrate in corsia: a ripensarci, mi fa venire la pelle d’oca ancora adesso. Forse è anche per questo che sono molto dispiaciuta per il ritiro di Roma dalla candidatura per le Olimpiadi del 2024».


La considera un’occasione persa?

«Dal punto di vista sportivo sì. Vivere un’Olimpiade in casa, magari da spettatrice - visto che il 2024 è molto lontano e io sono già avanti con gli anni, per la mia disciplina - sarebbe stato bellissimo. Credo che la scelta di rinunciare sia stata fatta un po’ con il paraocchi. Abbiamo detto no all’evento più importante che ci sia a livello sportivo perché oggi qualcuno non si sente pronto. Pensando in prospettiva, si poteva fare una scelta diversa: lo sport italiano se la sarebbe meritata. Naturalmente parlo con il cuore in mano, da sportiva e non da politica».


Lei ama molto l’Italia?

«Porto il tricolore addosso da quando avevo 12 anni e a 14 sono entrata in Nazionale. L’inno italiano cantato dagli atleti non è solo voce, ma la voglia di sentirsi uniti, parte di una nazione. Ho provato questa sensazione anche a Rio, percorrendo il corridoio d’ingresso che portava allo stadio durante la cerimonia inaugurale. Mi mi sentirò sempre la “ragazza d’Italia”».


Quello che traspare di lei come personaggio pubblico è l’immagine di una donna molto determinata. È davvero così?

«Sono abbastanza forte, ma non troppo sicura di me stessa. In gara emerge il lato deciso del mio temperamento, ma la Federica di tutti i giorni in realtà è diversa. Le piace il contatto con la natura. Qui a Livigno (dove ha preso parte a un raduno in altura con la Nazionale di nuoto, ndr) ci sono dei paesaggi di montagna pazzeschi. Il solo fatto di ammirarli, mi ridà fiato».


Invece, che cosa la rende fragile?

«Un certo uso dei social network. Mi hanno aiutato molto a parlare direttamente ai miei fan e a renderli partecipi della mia normalità, ma hanno anche dato voce a persone che si nascondono dietro allo schermo per sfogare tutta la loro cattiveria. Lo fanno senza conoscermi e questo un po’ mi dispiace».


Qual è il suo maggior pregio?

«Direi l’ottimismo. Credo che ogni cosa accada per un motivo che magari ci è incomprensibile in quel preciso istante. Non la considero una scusa per giustificare le delusioni, ma piuttosto una spinta per reagire a ciò che la vita ci mette davanti».


E il suo peggior difetto?

«Sono troppo trasparente. Non uso molti filtri e questo mi fa apparire sempre troppo categorica».


La sua immagine, sempre molto curata, sfata il luogo comune della sportiva in tuta e scarpe da ginnastica. Che rapporto ha con la moda?

«Non ho uno stile ben preciso, mi piace mescolare gli accessori, sono camaleontica. Anzi, lunatica. Doso il colore in base allo stato d’animo».


Lei in Italia è anche il volto di Swarovski Activity Tracking Jewelry, i bracciali-gioiello che registrano i movimenti di chi li indossa e aiutano a raggiungere i propri obiettivi di fitness. Le è piaciuto fare da musa per questa collezione?

«Sì, perché è moderna e accattivante. Swarovski con questa tecnologia indossabile ha pensato a noi ragazze fondendo stile e performance in un oggetto estremamente femminile. Come ogni donna, poi, io adoro ciò che brilla».


C’è chi dà per certo un suo futuro nel mondo della moda. Che cosa le piacerebbe fare?

«Vorrei imparare le tecniche per disegnare i modelli. Magari creare un marchio di scarpe e dargli il mio nome».


Nel frattempo, anche non volendo, con il suo fidanzato Filippo Magnini fa parte anche di una delle coppie italiane più seguite dalle cronache mondane. Vi manca la normalità di una famiglia qualunque?

«Conviviamo da cinque anni e abbiamo un rapporto quotidiano molto intenso, forse maggiore rispetto a tante altre coppie: ci alleniamo insieme e trascorriamo insieme anche il resto del nostro tempo. Siamo sempre andati avanti, nonostante due pause. Credo, però, che questi momenti ci abbiano fatto crescere, portando un equilibrio nella relazione».


Chi è più geloso dei due?

«Io, è un tratto del mio carattere».


Ha mai controllato il cellulare del suo fidanzato?

«Lo ammetto: sì, ma una volta sola. Non lo rifarei».


Qualcosa di Filippo che le è simpaticamente insopportabile?

«Un po’ di tempo fa avrei detto il suo disordine. Ma devo ammettere che è molto migliorato e sono fiera dei suoi progressi. Quando è venuto a vivere nella mia casa a Verona il “problema” era molto più serio».


Che cosa racconta questa casa di lei?

«Dentro c’è tutta me stessa. Le pareti bianche, il parquet chiaro e un soffitto alto cinque metri che la rende quasi un open space. Sembra la casa di Marco Polo, tanto per restare in tema con le mie origini venete. Ci sono tanti pezzi di cui mi sono innamorata durante i miei viaggi. Il tappeto da Istanbul, i vasi di Marrakech, i mobili dalla Cina e dei quadri presi in Thailandia, trovati in una galleria d’arte, arrotolati e messi in valigia».


Ha mai pensato a una data per il vostro matrimonio?

«Visto che di solito ci vuole almeno un anno per organizzarlo e prima ci sono un po’ di traguardi da raggiungere, direi che ci potrebbero volere altri cinque anni».


Così tanto? Qualche dettaglio in più?

«L’abito sarà rigorosamente bianco, ci saranno le rose perché mi piacciono e la cerimonia sarà in chiesa».


Che rapporto ha con la fede?

«Molto stretto. Se c’è qualcosa che non va, la preghiera mi aiuta. E poi, il mio sabato sera da bambina terminava con la frase: “Federica vai a letto che domani si deve andare a messa”».


E tra dieci anni come si immagina?

«Quasi 40enne! Ho sempre desiderato costruire una famiglia con Filippo, quindi diventare madre è un progetto per il nostro futuro. Non vorrei una famiglia perfetta, ma ci terrei che fossimo uniti da valori solidi. Mi piacerebbe che i miei figli crescessero con una personalità ben definita, che fossero in grado di scegliere per loro stessi e non seguendo gli altri».


E se un giorno suo figlio le dicesse: “Mamma voglio fare nuoto come te e papà”?

«Sarei felicissima. Penso che il nuoto, soprattutto in questo periodo in Italia, sia uno degli sport più puliti e più completi. Gli darei tanti consigli e di sicuro non lo lascerei andare via di casa troppo presto: io, all’età di 15 anni, mi sono trasferita a Settimo Milanese per allenarmi. Ne ho sofferto perché l’adolescenza è un periodo particolare, fatto di grandi cambiamenti».


Si capisce che il legame con la sua famiglia è forte, quali insegnamenti ha ricevuto dai suoi genitori?

«Mio padre mi ha insegnato la disciplina e il rispetto. Mia madre il gusto, la cura per i dettagli e l’importanza di tramandare le tradizioni. Per esempio, tra poco è Natale e festeggeremo la Vigilia con gli stessi ingredienti di sempre, gli stessi gesti, la casa che si riempie di parenti ed emana un bel calore».


Si è mai chiesta chi sarebbe oggi Federica Pellegrini se non fosse diventata un’icona del nuoto?

«È difficile rispondere. Da piccola volevo fare l’archeologa, poi ho scoperto la piscina. Mi considero una donna molto fortunata perché nella vita mi sono sentita spesso al posto giusto nel momento giusto, come se stessi seguendo una strada già segnata. È una sensazione bella e strana allo stesso tempo».


Una curiosità: che titolo darebbe a questa intervista?

«Adesso nuoto e poi mi sposo».

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«Se la strage in spiaggia o il saccheggio alla Stampa sono definiti "resistenza"»: l'editoriale di Silvia Grilli

Silvia Grilli
Il nuovo numero di Grazia è ora in edicola. Ecco l'editoriale della Direttrice Silvia Grilli

La resistenza è necessaria con ogni mezzo», «con Hamas fino alla vittoria», «ora e sempre resistenza». Sono slogan che sentiamo nelle piazze di tutto il mondo alle manifestazioni contro Israele.

Per chi li inneggia possono essere innocua teoria, opinioni a favore della Palestina o semplicemente parole urlate per non sentirsi esclusi dal gruppo, non una chiamata alle armi per massacrare i presunti oppressori. Ma c'è sempre chi prende la teoria alla lettera. Domenica 14 dicembre, quegli slogan sono stati scritti con il sangue degli ebrei.

Un padre e un figlio pachistani hanno sparato sulla folla che celebrava il primo giorno della festa religiosa ebraica dell’Hanukkah su una spiaggia famosa per le nuotate al tramonto. Quindici morti e decine di feriti sono rimasti sulla sabbia a Bondi Beach, uno dei posti più belli, pacifici e gioiosi dell’Australia. Il primo ministro Anthony Albanese ha dichiarato che non riesce a spiegarsi tutto questo male. Io credo sia molto spiegabile: per gli invasati che considerano Israele il male assoluto, massacrare gli ebrei è fare giustizia.

È la colpa dei giudei che spinge giovani ProPal a saccheggiare la redazione del quotidiano La Stampa (paradossalmente uno dei più favorevoli alla causa palestinese). Induce quel centinaio di manifestanti a scrivere e urlare slogan terroristi come “Stampa-Morta” o «giornalista sei il primo della lista», mentre una loro guru, Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite, riduce l'assalto a un «monito ai giornalisti».

Nella tradizione ebraica, Hanukkah è la festa della luce, della speranza. Colpire bambini, anziani e adulti che festeggiano la vita non è diverso da quando il 7 ottobre i terroristi di Hamas fecero strage al Nova Festival. Sparare sulla spiaggia in un momento storico in cui c'è qualche passo verso la pace è voler cancellare la speranza nel futuro.

Eppure, ho ancora fiducia che l’umanità possa superare l’odio. Domenica 14 dicembre, in Australia, questa speranza aveva i gesti di un uomo: Ahmed Al Ahmed, fruttivendolo immigrato siriano, che si è precipitato su uno dei terroristi e gli ha strappato il fucile. Aveva le gambe di Jackson Doolan, il bagnino veterano della spiaggia, ex star di Baywatch in Australia, che è corso a piedi nudi per un chilometro e mezzo portando il borsone dei medicinali. Aveva le braccia di tutti coloro che si sono adoperati per salvare le vittime, sollevandole sulle tavole di soccorso che di solito vengono usate per trasportare la gente a riva.

Gli orrori si ripetono, sembrano non volersi fermare. Ma se le persone corrono ad aiutare, se ci sono solidarietà e compassione, c’è ancora speranza nell’umanità.

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Grazia è in edicola con Maya Hawke

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Ecco cosa vi aspetta nel nuovo numero di Grazia, da oggi in edicola e su app

Maya Hawke è la protagonista di copertina Grazia in edicola e app. Si è fatta conoscere con la serie Stranger Things, arrivata all’ultima stagione. Ora l’attrice newyorkese figlia delle star Uma Thurman ed Ethan Hawke, girerà il nuovo capitolo di Hunger Games dove vuole portare l’energia di chi non ha paura di crescere.

Questa settimana intervistiamo alcune icone di Hollywood. Incontriamo Zoe Saldana, al cinema nel ruolo di Neytiri, la madre combattente di Avatar. Parliamo con Ariana Grande, in corsa ai Golden Globe con Wicked e le attrici premio Oscar Jodie Foster e Laura Dern.

Il 2025 ha cambiato noi e la Storia. Grazia lo ripercorre. Dal ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca alla guerra a Gaza. Dalle vittorie di Jannik Sinner all’elezione del primo Papa americano fino alla scomparsa di icone come Ornella Vanoni e Giorgio Armani.

Grazia ha scelto i personaggi da tenere d'occhio nel 2026: le sciatrici Sofia Goggia e Lindsey Vonn attese alle Olimpiadi invernali, María Corina Machado, premio Nobel per la Pace che potrebbe cambiare le sorti del Venezuela, Lady Gaga in arrivo in concerto in Europa e molti altri. Da Can Yaman a Jacob Elordi, da Timothée Chalamet a Jeremy Allen White, che cos’hanno in comune i nuovi sex symbol? Mettono d’accordo mamme e figlie. Grazia ve li racconta.

Abiti dorati, trasparenze, ricami e dettagli preziosi. Grazia ha scelto i capi che ti rendono protagonista delle notti di festa e delle serate più speciali. Ma anche lo stile più cool per il 2026.

E nelle pagine dedicate alla bellezza trovate tutti i segreti per brillare: dalle strategie effetto freddo per una pelle più tonica alla scelta del fondotinta e del correttore giusti per illuminarla.

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Jodie Foster: "Faccio film per capire chi sono"

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Jodie Foster festeggia al cinema 60 anni da star. Nel thriller Vita privata, da oggi nelle sale, è una psicanalista tormentata. Ma a noi racconta come, grazie alla sua carriera, ha capito che le donne over 50 hanno tutte le carte per vincere

Come trascorre il giorno del suo compleanno una diva planetaria come Jodie Foster, sotto i riflettori dall’età di tre anni? «Lavorando», mi risponde accomodata sulla poltrona, mentre sorseggia un cappuccino. Neanche a farlo apposta la incontro proprio il giorno in cui compie 63 anni e mi confida che finita l’intervista andrà con gli amici a festeggiare. Sessant’anni di carriera tondi, fresca del Golden Globe vinto a gennaio per la sua performance nella serie True Detective: Night Country, la regista e attrice torna al cinema con il nuovo film di Rebecca Zlotowski Vita Privata. Presentato in anteprima al Festival di Cannes e dall’11 dicembre al cinema, la vede calarsi nei panni della nevrotica psichiatra Lilian Steiner, ossessionata da un caso molto delicato.

Che rapporto ha con il passare del tempo?

«Buono. Mi sento più felice che mai in vita mia».

Davvero?

«Parlo di una gioia profonda, non di quello che mi accade giorno per giorno. Le cose della vita, belle e brutte, capitano. Ma vivo un momento in cui il lavoro sta andando sempre meglio e ho superato l’ansia delle domande: “Sarò in grado di farcela con le mie forze?”, “Avrò una famiglia?”. Tutte questioni archiviate, per fortuna non devo più preoccuparmene. Da giovane passavo tanto tempo a pensare a me stessa, dopo una certa età mi sono concentrata sulle storie degli altri, è più facile e divertente».

Anche in Vita privata ascolta le storie degli altri.

«La mia Lilian non è una psichiatra risolta, anzi, è parecchio nevrotica. Non riesce a comprendere come sia possibile che la sua paziente in cura da nove anni (Virginie Efira, ndr) si sia potuta uccidere. Non ci crede, non ammette la possibilità che lei, in quanto psichiatra, sia stata così sorda».

Ritiene che come società abbiamo perso il potere di ascoltare?

«Mostrare curiosità verso gli altri è tutto. Noi attori siamo allenati all’ascolto, per lavoro siamo chiamati a calarci nelle vite degli altri ed è una bella abitudine mettersi nei panni altrui, un esercizio che possiamo fare tutti. Ci aiuterebbe come società».

Dal titolo del film alla realtà, essendo conosciuta in tutto il mondo sin da piccola come ha fatto a proteggere la sua, di vita privata?

«Sforzandomi sempre molto. Lavorando sin da bambina sapevo di dovermi proteggere: volevo andare a Disneyland, ma senza le telecamere che mi seguissero. Volevo essere libera di andare al supermercato, o prenotare un volo senza che nessuno lo facesse al posto mio. Ci ho sempre tenuto a mantenere viva la mia indipendenza, tracciando una linea netta tra la mia vita pubblica e quella privata. Oggi sono contenta di aver seguito quell’impulso».

Nel film la sentiamo sfoggiare un francese fluente…

«Mi fa sentire più sicura di me, rispetto all’inglese. Sarà che devo la passione per il francese a mia madre, che me lo fece studiare». 

Come mai?

«Non aveva mai viaggiato fuori dagli Stati Uniti fino ai cinquant’anni, ma la cultura europea l’affascinava. Comprava di continuo riviste e libri su Parigi e Napoleone, addirittura dipinse le pareti di casa con i colori delle antiche pietre romane. Quando ero bambina fece il viaggio dei suoi sogni e andò in Francia, con un tour in bus di quelli turistici».

Che cosa le disse al ritorno?

«"Jodie, impara il francese e diventa una grande attrice francese". Era il suo modo di dirmi che sognava per me una vita più ampia di quella americana. Anche perché erano gli anni 70, al potere c’era Nixon, non era facile essere americani. A mia madre piaceva l’idea che potessi scegliere di essere libera di inventarmi una vita tutta mia».

Ha fatto lo stesso con i suoi figli?

«Dovrebbe chiederlo a loro (Charlie e Kit, 27 e 24 anni, ndr). Intanto uno di loro sa parlare benissimo il tedesco, le mie radici tedesche ne sono contente».

Che rapporto ha con la psichiatria?

«Sempre stata scettica, ma una volta mi sono fatta ipnotizzare».

Com’è andata?

«Mi ripetevo: "Ma perché pagare 90 dollari a un tipo quando potrei smettere di fumare gratis oggi stesso?", eppure ha funzionato. Non amo la psicanalisi, per quanto la trovi attraente da un punto di vista cinematografico: non mi piace Freud, in America nessuno lo stima più, era un grandissimo sessista. Trovo però importante che al cinema si parli di salute mentale».

E che si mostri come le donne over 50 abbiano desideri, diritto al piacere e una vita sessuale appagante, come la sua Lilian con l’ex marito interpretato da Daniel Auteuil: perché tutto questo al cinema si vede ancora poco?

«Dovremmo parlare per ore della rappresentazione del corpo femminile. Purtroppo i pregiudizi sulle donne dopo una certa età sopravvivono, non solo al cinema. Ma sono speranzosa: registe come Zlotowski dimostrano di voler raccontare le donne per quello che sono, con tutti i loro desideri. La mia Liliane non è solo una psichiatra, una madre e una nonna, ma una donna che si esprime anche attraverso il  corpo».

Con Auteuil avete avuto un intimacy coordinator?

«È una figura che ho scoperto sul set di True Detective. Ho detto: "Che lavoro pazzesco, dov’eri tu quando avevo 16 anni?". Ormai io e Auteil abbiamo superato i 60 e abbiamo risolto senza, ma sono contenta che questa figura esista, era importante che ci fosse».

Che cosa di lei non hanno mai capito finora?

«Non sono seria come credono. Non ho mai capito perché il pubblico mi affibbi quest’aura di serietà, io sono una persona leggera. Certo, se mi fanno domande serie rispondo in modo serio e amo fare lavori significativi, ma se sapeste com’è la mia giornata ideale cambiereste idea».


Com’è la sua giornata ideale?

«Sveglia presto, sci ai piedi, la sera una partita di calcio in tv e una cena gustosa. Altro che tormentata, sono una persona felice e ottimista verso il futuro».

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Come trasformare l'eredità in un'opportunità per i propri figli

Elena Valzania x Alleanza
L'eredità di famiglia può assicurare un sostegno economico ai propri cari. Basta sottoscrivere una polizza di investimento adeguata, affidandosi a un bravo consulente

Elena Valzania ha 57 anni e vive a Ravenna, in una casa che ha ereditato dalla sua famiglia. Cresciuta in un contesto economicamente stabile, è stata segnata più di quanto pensasse da ciò che ha ricevuto in eredità: non solo beni, ma un intero modo di vivere e pensare il denaro. «I nostri familiari conducevano vite semplici, risparmiavano e investivano».

A un certo punto, la malattia entra nella sua storia familiare e si intreccia alle questioni economiche. Il padre di Elena si ammala gravemente, per poi morire quando lei ha 20 anni. Insieme con i beni materiali, Elena riceve anche un’eredità invisibile: l’idea che il lavoro debba essere per forza fatica. Un peso silenzioso che la accompagna a lungo, anche dopo la laurea in Farmacia, quando si avvicina all’omeopatia e inizia a lavorare. «Rispetto allo studio, lavorare mi sembrava facilissimo, ma proprio per questo mi pareva che non valesse abbastanza». E infatti, quando viene assunta in una cooperativa di Bologna, non negozia lo stipendio.

La sua carriera aziendale si interrompe durante la sua prima maternità: l’azienda viene acquisita e, al rientro dal congedo, capisce che stanno cercando di spingerla alle dimissioni.

Da allora, Elena non è più rientrata nel mondo del lavoro “ufficiale”. I soldi necessari ad andare avanti, però, in un modo o nell’altro, entrano. Ed Elena procede nella sua vita, con una leggerezza sconosciuta ai suoi familiari. Che le è concessa, però, anche grazie all’eredità materiale ricevuta da loro: «Mio marito e io abbiamo sempre avuto la mentalità di investire sulla nostra famiglia. Tuttora siamo concentrati sul mantenere i nostri tre figli agli studi e i beni di famiglia sono un mezzo per sostenere questa nuova generazione».

Parola all'esperta: le polizze come strumento di tutela

RISPONDE ELENA BELLUCCI DELL’AGENZIA ALLEANZA DI EMPOLI (FI)

1) Come si gestisce un’eredità ricevuta?
«Ricevere un’eredità può risultare persino destabilizzante, specie se si tratta di grandi somme, e senza una gestione attenta il rischio è di sperperare il patrimonio o di non trarne vantaggio. È insomma necessaria un’attenta pianificazione che parta dai bisogni dell’individuo o della famiglia, ragione per cui può essere molto utile affidarsi a un buon consulente assicurativo e finanziario. Tra le soluzioni possibili ci sono le polizze di investimento, che combinano l’opportunità di investimento con la componente assicurativa, che offre una protezione sul capitale o sul rischio di vita. Ne esistono di diversi tipi: con quelle a capitale garantito, per esempio, si ha la certezza che il capitale che sarà restituito all’uscita dall’investimento non sarà inferiore a quello versato».

2) Che vantaggi hanno, rispetto alle altre soluzioni? 
«Le polizze da investimento sono nate per chi desidera assicurare un sostegno economico ai propri cari, anche in caso di decesso, con l’aggiunta di un rendimento. Offrono però anche altri vantaggi: uno dei più importanti sta nel fatto che il capitale così collocato non rientra nell’asse ereditario e non viene considerato nel calcolo dell’eredità ai fini della tassa di successione. In caso di morte del contraente le somme passano al beneficiario, nel rispetto delle quote di eredità legittime disponibili, e questo rende la polizza un ottimo strumento per tutelare le coppie non sposate o i minori».

Testo di Annalisa Monfreda
*co-fondatrice di Rame, rameplatform.com