Elle Fanning: Quell’ossessione chiamata bellezza
Elle Fanning è sotto i riflettori da quando aveva 2 anni. Ora che ne ha 18 è la protagonista di unfilm che mette sotto accusa i nuovi modelli estetici. «Perché so bene», dice, «che per una ragazza la ricerca della perfezione può diventare una schiavitù»
Elle Fanning mi sorride dall’alto del suo metro e 85 (tacchi compresi) e io cerco di capire che cosa sia rimasto di fanciullesco in questa 18enne attrice americana che ha già girato 23 film e non ha intenzione di fermarsi: nei prossimi mesi ne usciranno altri otto, ha in mente di diventare regista mentre il suo nome, dopo la partecipazione al Festival di Cannes come protagonista dell’horror di Nicolas Winding Refn The Neon Demon, nelle sale dall’8 giugno, è entrato stabilmente nello star system. «Italia!», esclama Elle muovendo le mani quando mi presento. «Ho dei ricordi meravigliosi di Venezia, dove nel 2010 ho accompagnato alla Mostra del Cinema il film di Sofia Coppola Somewhere (vincitore del Leone d’oro, ndr). Spero di tornare presto nel vostro Paese, per fortuna il mio lavoro mi permette di viaggiare».
Capelli biondi lunghissimi, pelle candida, occhi verdi sottolineati dall’eyeliner e risate improvvise, Elle alterna momenti di giovanile esuberanza a una consapevolezza da professionista consumata. Si presenta all’appuntamento in minigonna arancio, maglia di lurex turchese, mocassini dorati tacco 12, un look abbagliante in tono con la sua visibilità cresciuta a dismisura. La neo-star ha ormai oscurato la carriera della sorella maggiore Dakota Fanning, 22, la sadica vampira Jane nella saga Twilight. E pensare che Elle aveva cominciato proprio grazie a Dakota, interpretando a 2 anni la sua controfigura nel film Io sono Sam accanto a Sean Penn. A 12, in Somewhere, era la figlia assennata e malinconica dello scapestrato Stephen Dorff. Ha poi affiancato Angelina Jolie in Maleficent. Ruolo dopo ruolo, la bambina prodigio è cresciuta e ha preso gusto alle sfide più spericolate. The Neon Demon è una di queste: l’attrice interpreta Jesse, un’angelica ragazzina della provincia americana che sbarca a Los Angeles con il sogno di diventare modella, ma finisce preda di un gruppo di colleghe diaboliche e invidiose, pronte a tutto per rubare la sua bellezza. Cannibalismo, scene di necrofilia lesbo, inquadrature estetizzanti, violenza e situazioni dark servono al regista per descrivere il mondo della moda. Si tratta di una visione terrificante, estrema, per questo è stata fischiata a Cannes. Elle, protagonista in passato delle campagne di marchi famosi come Miu Miu, Marc Jacobs, Lolita Lempicka, malgrado l’entusiasmo per aver girato il film, non sembra condividerla.
È davvero così infernale l’ambiente della moda?
«No, per quello che ho potuto constatare di persona. Non ho mai sfilato, ho solo posato per alcuni servizi fotografici e ricordo persone molto creative, incapaci di guardare l’orologio e innamorate del proprio lavoro. Il film non condanna l’industria del fashion ma, in forma metaforica, denuncia l’ossessione per la bellezza, il narcisismo e la ricerca incondizionata della perfezione fisica».
Ed è sbagliato, secondo lei, cercare di migliorare il proprio aspetto?
«Se non si tengono i piedi per terra, si rischia di diventare schiavi della perfezione estetica che nella realtà non esiste. Molte ragazze, ammirando sui social network le immagini delle attrici e delle top model, spesso migliorate dai ritocchi digitali, sognano di essere come loro. E se non ci riescono, impazziscono. Il film è una favola nera che mette in guardia contro i rischi di farsi condizionare dalla bellezza».
Il suo personaggio le somiglia?
«Qualcosa di me c’è. Il regista ha chiesto la mia collaborazione. Voleva sapere tutto dei miei 16 anni, l’età che avevo al momento delle riprese. Anch’io vengo da una piccola città della Georgia come Jesse e ricordo lo stupore della prima volta in cui arrivai a Los Angeles. Ero piccolissima e non sono più ripartita, oggi è casa mia. Ma non mi sono sentita in pericolo. I rischi, semmai, sono altri».
Quali?
«Molti vanno a Los Angeles per cambiare vita e dimostrare al mondo intero che possono avere successo. C’è l’illusione che in California tutti i sogni possano avverarsi. Non è così, il fallimento è da mettere nel conto».
Perché dalla Georgia si è trasferita nella capitale del cinema?
«I miei genitori volevano stare vicini a Dakota, che a 6 anni aveva già cominciato a girare film e tutto lasciava pensare che avrebbe continuato. La famiglia non poteva rimanere divisa».
Due sorelle e la stessa carriera nel cinema: riuscite a non essere rivali?
«Il segreto è non parlare mai di lavoro. Ognuna di noi va avanti per la propria strada. Da piccole ce le siamo date di santa ragione, come tutte le sorelle del mondo, ma crescendo siamo diventate amiche e complici. Dakota vive a New York e sono andata a trovarla di recente. Ci vogliamo bene, ci sosteniamo. A distanza facciamo il tifo l’una per l’altra. Vorrei tanto che un giorno girassimo un film insieme».
Quando il regista Winding Refn le ha proposto di essere la protagonista di The Neon Demon ha avuto esitazioni?
«No, sono stata io a farmi avanti quando ho saputo del suo progetto. Avevo adorato il suo thriller Drive e mi sono precipitata a casa sua, dove Nicolas vive circondato dalle donne: la moglie Liv e le due bambine, che mi hanno ricevuta vestite come le protagoniste del film Frozen. Con la musica del cartoon a tutto volume, il regista mi ha spiegato le sue intenzioni. Dopo pochi giorni ero sul set».
Lei è competitiva come i personaggi del film?
«Sì, molto. Vengo da una famiglia di sportivi e ho la competizione nel sangue: mia madre è tennista, papà gioca a baseball, mio nonno faceva il calciatore e mia zia è una reporter sportiva. Ho sempre voluto vincere. Non c’è niente di male: la competizione aiuta a sfidare i propri limiti».
C’è qualche scena che l’ha messa in difficoltà?
«Il confronto con l’attore Keanu Reeves, che fa il sinistro proprietario di un motel. E nella sfilata, durante un casting di modelle: temevo di non essere all’altezza. È stata impegnativa anche una sequenza particolarmente violenta, ma sul set c’era un clima di allegria. Finite le riprese siamo scoppiati tutti a ridere».
Ha una vita frenetica, passa da un set all’altro, gira il mondo: ha il tempo di studiare?
«L’ho sempre trovato. Per un certo periodo ho studiato per corrispondenza, ma mi sentivo terribilmente sola. Mi mancava la compagnia degli altri, così sono tornata a scuola. Quest’anno terminerò il liceo, ma non credo che andrò al college perché il lavoro mi obbligherebbe a saltare troppe lezioni».
Ha un buon rapporto con i suoi compagni di scuola?
«Li adoro. Per andare al Festival di Cannes ho perso il ballo di fine anno, una tradizione cui teniamo tutti moltissimo. Allora il mio più caro amico ha attraversato l’Oceano per farmi da cavaliere e, sulla Croisette, abbiamo ricreato la festa. Ho postato su Instagram le foto di noi due in abito da sera e ho avuto migliaia di like».
È molto attiva sui social network?
«Mi sono regalata Instagram per i miei 18 anni su consiglio delle attrici Susan Sarandon e Naomi Watts, con le quali qualche mese fa ho girato il film About Ray, in cui interpreto un transgender. È l’unico social che mi piace, perché ho il controllo della situazione, decido io che cosa rendere pubblico».
Tornerà a girare un film con Sofia Coppola, The Beguilded, e diretta dalla regista saudita Haifaa Al-Mansour sarà la scrittrice inglese Mary Shelley in A Storm in the Stars: è diverso essere dirette da una donna?
«Tutti i registi con cui ho lavorato mi hanno lasciata libera di esprimermi, ma con Sofia l’atmosfera era più rilassata. Sul set di Somewhere, quando discutevo con lei una scena, mi sembrava di chiacchierare sul divano con un’amica».
Elle, c’è un ragazzo con cui condividere progetti e successi?
«In questo momento sono single. L’ultima storia l’ho avuta a scuola, con un compagno di studi. È stato bello, ma oggi non ho tempo per l’amore. Sono troppo concentrata sul lavoro».
Ma non sogna di creare una famiglia, avere dei bambini?
«Certo. I miei genitori si sono conosciuti quando avevano 7 anni e stanno ancora insieme. Una rarità, al giorno d’oggi. Mi piacerebbe molto avere la loro stessa fortuna. Per il momento penso alla carriera, l’amore può aspettare».
Elle scoppia in una risata, ci saluta e se ne va, coloratissima e leggera. Malgrado il successo, gli impegni e lo status da diva, per fortuna è ancora una ragazzina. Avrà tutto il tempo per crescere.
© Riproduzione riservata
Jodie Foster: "Faccio film per capire chi sono"
Come trascorre il giorno del suo compleanno una diva planetaria come Jodie Foster, sotto i riflettori dall’età di tre anni? «Lavorando», mi risponde accomodata sulla poltrona, mentre sorseggia un cappuccino. Neanche a farlo apposta la incontro proprio il giorno in cui compie 63 anni e mi confida che finita l’intervista andrà con gli amici a festeggiare. Sessant’anni di carriera tondi, fresca del Golden Globe vinto a gennaio per la sua performance nella serie True Detective: Night Country, la regista e attrice torna al cinema con il nuovo film di Rebecca Zlotowski Vita Privata. Presentato in anteprima al Festival di Cannes e dall’11 dicembre al cinema, la vede calarsi nei panni della nevrotica psichiatra Lilian Steiner, ossessionata da un caso molto delicato.
Che rapporto ha con il passare del tempo?
«Buono. Mi sento più felice che mai in vita mia».
Davvero?
«Parlo di una gioia profonda, non di quello che mi accade giorno per giorno. Le cose della vita, belle e brutte, capitano. Ma vivo un momento in cui il lavoro sta andando sempre meglio e ho superato l’ansia delle domande: “Sarò in grado di farcela con le mie forze?”, “Avrò una famiglia?”. Tutte questioni archiviate, per fortuna non devo più preoccuparmene. Da giovane passavo tanto tempo a pensare a me stessa, dopo una certa età mi sono concentrata sulle storie degli altri, è più facile e divertente».
Anche in Vita privata ascolta le storie degli altri.
«La mia Lilian non è una psichiatra risolta, anzi, è parecchio nevrotica. Non riesce a comprendere come sia possibile che la sua paziente in cura da nove anni (Virginie Efira, ndr) si sia potuta uccidere. Non ci crede, non ammette la possibilità che lei, in quanto psichiatra, sia stata così sorda».
Ritiene che come società abbiamo perso il potere di ascoltare?
«Mostrare curiosità verso gli altri è tutto. Noi attori siamo allenati all’ascolto, per lavoro siamo chiamati a calarci nelle vite degli altri ed è una bella abitudine mettersi nei panni altrui, un esercizio che possiamo fare tutti. Ci aiuterebbe come società».
Dal titolo del film alla realtà, essendo conosciuta in tutto il mondo sin da piccola come ha fatto a proteggere la sua, di vita privata?
«Sforzandomi sempre molto. Lavorando sin da bambina sapevo di dovermi proteggere: volevo andare a Disneyland, ma senza le telecamere che mi seguissero. Volevo essere libera di andare al supermercato, o prenotare un volo senza che nessuno lo facesse al posto mio. Ci ho sempre tenuto a mantenere viva la mia indipendenza, tracciando una linea netta tra la mia vita pubblica e quella privata. Oggi sono contenta di aver seguito quell’impulso».
Nel film la sentiamo sfoggiare un francese fluente…
«Mi fa sentire più sicura di me, rispetto all’inglese. Sarà che devo la passione per il francese a mia madre, che me lo fece studiare».
Come mai?
«Non aveva mai viaggiato fuori dagli Stati Uniti fino ai cinquant’anni, ma la cultura europea l’affascinava. Comprava di continuo riviste e libri su Parigi e Napoleone, addirittura dipinse le pareti di casa con i colori delle antiche pietre romane. Quando ero bambina fece il viaggio dei suoi sogni e andò in Francia, con un tour in bus di quelli turistici».
Che cosa le disse al ritorno?
«"Jodie, impara il francese e diventa una grande attrice francese". Era il suo modo di dirmi che sognava per me una vita più ampia di quella americana. Anche perché erano gli anni 70, al potere c’era Nixon, non era facile essere americani. A mia madre piaceva l’idea che potessi scegliere di essere libera di inventarmi una vita tutta mia».
Ha fatto lo stesso con i suoi figli?
«Dovrebbe chiederlo a loro (Charlie e Kit, 27 e 24 anni, ndr). Intanto uno di loro sa parlare benissimo il tedesco, le mie radici tedesche ne sono contente».
Che rapporto ha con la psichiatria?
«Sempre stata scettica, ma una volta mi sono fatta ipnotizzare».
Com’è andata?
«Mi ripetevo: "Ma perché pagare 90 dollari a un tipo quando potrei smettere di fumare gratis oggi stesso?", eppure ha funzionato. Non amo la psicanalisi, per quanto la trovi attraente da un punto di vista cinematografico: non mi piace Freud, in America nessuno lo stima più, era un grandissimo sessista. Trovo però importante che al cinema si parli di salute mentale».
E che si mostri come le donne over 50 abbiano desideri, diritto al piacere e una vita sessuale appagante, come la sua Lilian con l’ex marito interpretato da Daniel Auteuil: perché tutto questo al cinema si vede ancora poco?
«Dovremmo parlare per ore della rappresentazione del corpo femminile. Purtroppo i pregiudizi sulle donne dopo una certa età sopravvivono, non solo al cinema. Ma sono speranzosa: registe come Zlotowski dimostrano di voler raccontare le donne per quello che sono, con tutti i loro desideri. La mia Liliane non è solo una psichiatra, una madre e una nonna, ma una donna che si esprime anche attraverso il corpo».
Con Auteuil avete avuto un intimacy coordinator?
«È una figura che ho scoperto sul set di True Detective. Ho detto: "Che lavoro pazzesco, dov’eri tu quando avevo 16 anni?". Ormai io e Auteil abbiamo superato i 60 e abbiamo risolto senza, ma sono contenta che questa figura esista, era importante che ci fosse».
Che cosa di lei non hanno mai capito finora?
«Non sono seria come credono. Non ho mai capito perché il pubblico mi affibbi quest’aura di serietà, io sono una persona leggera. Certo, se mi fanno domande serie rispondo in modo serio e amo fare lavori significativi, ma se sapeste com’è la mia giornata ideale cambiereste idea».
Com’è la sua giornata ideale?
«Sveglia presto, sci ai piedi, la sera una partita di calcio in tv e una cena gustosa. Altro che tormentata, sono una persona felice e ottimista verso il futuro».
© Riproduzione riservata
Come trasformare l'eredità in un'opportunità per i propri figli
Elena Valzania ha 57 anni e vive a Ravenna, in una casa che ha ereditato dalla sua famiglia. Cresciuta in un contesto economicamente stabile, è stata segnata più di quanto pensasse da ciò che ha ricevuto in eredità: non solo beni, ma un intero modo di vivere e pensare il denaro. «I nostri familiari conducevano vite semplici, risparmiavano e investivano».
A un certo punto, la malattia entra nella sua storia familiare e si intreccia alle questioni economiche. Il padre di Elena si ammala gravemente, per poi morire quando lei ha 20 anni. Insieme con i beni materiali, Elena riceve anche un’eredità invisibile: l’idea che il lavoro debba essere per forza fatica. Un peso silenzioso che la accompagna a lungo, anche dopo la laurea in Farmacia, quando si avvicina all’omeopatia e inizia a lavorare. «Rispetto allo studio, lavorare mi sembrava facilissimo, ma proprio per questo mi pareva che non valesse abbastanza». E infatti, quando viene assunta in una cooperativa di Bologna, non negozia lo stipendio.
La sua carriera aziendale si interrompe durante la sua prima maternità: l’azienda viene acquisita e, al rientro dal congedo, capisce che stanno cercando di spingerla alle dimissioni.
Da allora, Elena non è più rientrata nel mondo del lavoro “ufficiale”. I soldi necessari ad andare avanti, però, in un modo o nell’altro, entrano. Ed Elena procede nella sua vita, con una leggerezza sconosciuta ai suoi familiari. Che le è concessa, però, anche grazie all’eredità materiale ricevuta da loro: «Mio marito e io abbiamo sempre avuto la mentalità di investire sulla nostra famiglia. Tuttora siamo concentrati sul mantenere i nostri tre figli agli studi e i beni di famiglia sono un mezzo per sostenere questa nuova generazione».
Parola all'esperta: le polizze come strumento di tutela
RISPONDE ELENA BELLUCCI DELL’AGENZIA ALLEANZA DI EMPOLI (FI)
1) Come si gestisce un’eredità ricevuta?
«Ricevere un’eredità può risultare persino destabilizzante, specie se si tratta di grandi somme, e senza una gestione attenta il rischio è di sperperare il patrimonio o di non trarne vantaggio. È insomma necessaria un’attenta pianificazione che parta dai bisogni dell’individuo o della famiglia, ragione per cui può essere molto utile affidarsi a un buon consulente assicurativo e finanziario. Tra le soluzioni possibili ci sono le polizze di investimento, che combinano l’opportunità di investimento con la componente assicurativa, che offre una protezione sul capitale o sul rischio di vita. Ne esistono di diversi tipi: con quelle a capitale garantito, per esempio, si ha la certezza che il capitale che sarà restituito all’uscita dall’investimento non sarà inferiore a quello versato».
2) Che vantaggi hanno, rispetto alle altre soluzioni?
«Le polizze da investimento sono nate per chi desidera assicurare un sostegno economico ai propri cari, anche in caso di decesso, con l’aggiunta di un rendimento. Offrono però anche altri vantaggi: uno dei più importanti sta nel fatto che il capitale così collocato non rientra nell’asse ereditario e non viene considerato nel calcolo dell’eredità ai fini della tassa di successione. In caso di morte del contraente le somme passano al beneficiario, nel rispetto delle quote di eredità legittime disponibili, e questo rende la polizza un ottimo strumento per tutelare le coppie non sposate o i minori».
Testo di Annalisa Monfreda
*co-fondatrice di Rame, rameplatform.com
© Riproduzione riservata
«Quanto ti dicono: "se non puoi violentare tua moglie, chi puoi violentare?"»: l'editoriale di Silvia Grilli
In una scena di C'è ancora domani, la protagonista Delia, costretta dal marito brutale a un rapporto sessuale, toglie un granellino di polvere dal comodino, completamente estranea a quanto le sta accadendo. La dissociazione è un'autodifesa comune tra le vittime di stupro.
Una ragazza che intervistai mi raccontò che, durante la violenza, cercava di ricordare le parole delle sue canzoni preferite. Era come congelata nel panico: non urlò, non si mosse, terrorizzata di subire ulteriori aggressioni.
Jessica Mann, una delle testimoni al processo contro il produttore stupratore Harvey Weinstein, ha ricordato di essere rimasta immobile, mentre lui la violentava. Mann ha citato in tribunale uno studio scientifico sulle difese messe in atto da esseri umani e animali. Questi ultimi si fingono morti di fronte a un attacco, perché così i predatori sembrano perdere interesse. Ma, per ironia della sorte, è proprio l’immobilità della vittima a mettere in dubbio la credibilità delle donne nei dibattimenti per stupro. «Non si è mossa, quindi vuol dire che ci stava».
Giorgia Meloni ed Elly Schlein hanno voluto una legge per cambiare la vecchia norma, secondo la quale è reato solo se si viene costrette ad atti sessuali con modi violenti o minacce. Le due leader condividono l’idea che il consenso debba essere dichiarato all’inizio e durante il rapporto.
L’atto sessuale deve avvenire per libera scelta, non per ricatto, abuso di potere o quando la volontà è ridotta per effetto di alcol o sostanze. E non è consenso solo perché si era detto «sì» in passato o perché si è sposati. Il silenzio o l’inerzia non sono acquiescenza, ma una conseguenza della violenza stessa. E ci si può tirare indietro, anche dopo aver, inizialmente, condiviso l’approccio.
La legge, nata dal patto Meloni-Schlein, è stata approvata all’unanimità dalla Camera dei deputati. Ma al Senato, nella Giornata contro la violenza degli uomini sulle donne, è stata bloccata e rinviata. Il ministro Matteo Salvini sostiene che «Il consenso preliminare lascia spazio a vendette personali che intaserebbero i tribunali».
Cioè, la magistratura si ritroverebbe con orde di donne che mentono. Sinceramente, non ho mai visto in Italia tutta questa folla di femmine pronte ad accusare per incastrare qualcuno. Sinceramente, mi pare il contrario: le vittime non denunciano perché conoscono bene gli interrogatori e il calvario che dovrebbero sopportare se lo facessero. Sinceramente, mi sembra una bocciatura per paura di perdere i privilegi maschili.
In una scena del film After the Hunt - Dopo la caccia, Julia Roberts dice a una studentessa che accusa un professore di stupro: «Non denunciare, altrimenti diventerai radioattiva. Il nostro sistema è dominato dai maschi. Ne avrai bisogno quando chiederai lavoro, e non lo otterrai perché saranno terrorizzati che un giorno tu possa accusare anche loro».
La notte del weekend scorso, a Milano, una ragazza ha denunciato per violenza un giovane con il quale si era allontanata. «Mi ha violentata», ha detto. «Era consenziente», ha ribattuto lui. Un consenso che fino a un certo punto c’è stato. Poi non più.
Lo stupro non è stupro solo se ti costringono con la pistola puntata alla tempia. Lo è anche quando io non voglio o non voglio più. Vale anche nel caso di rapporti sessuali tra conviventi: solo «sì» è «sì».
Anni fa, un senatore californiano si oppose a una legge contro lo stupro nel matrimonio, dicendo: «Se non puoi violentare tua moglie, chi puoi violentare?». Ecco, è proprio questo il concetto: né il corpo di tua moglie né quello della ragazza che si allontana con te, poi cambia idea, ti appartengono. Il loro corpo è loro, non tuo.
© Riproduzione riservata
GRAZIA presenta il numero straordinario "L'arte è donna" con direttrice ospite Patrizia Sandretto Re Rebaudengo
Grazia, il magazine di Reworld Media diretto da Silvia Grilli, presenta il numero straordinario L'arte è donna. Il talento e il coraggio di artiste, galleriste, progettiste, collezioniste sono il filo conduttore di questa edizione speciale che ha come direttrice ospite Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, fondatrice e presidente della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, collezionista e mecenate riconosciuta a livello internazionale.
“Nella storia dell’arte le donne sono state cancellate o relegate al ruolo di mute muse ispiratrici, tagliate fuori dalle scuole, dalle botteghe degli artisti”, dichiara Silvia Grilli, direttrice di Grazia. “Con questo numero abbiamo voluto invece raccontare il talento femminile che c’è e c’è sempre stato, la creatività, pervicacia e abnegazione delle artiste donne, il loro sguardo diverso. Quando ho chiesto a Patrizia Sandretto Re Rebaudengo di curare questo numero di Grazia, ho trovato un’interlocutrice appassionata, capace di raccontare nel modo migliore quel genio che non è appannaggio esclusivo degli uomini”.
“Questo numero speciale contiene storie, opere e luoghi che raccontano la mia vita con l’arte contemporanea, sul filo di una grande passione, un sogno, una visione che seguo e inseguo da oltre trent’anni”, spiega la direttrice ospite Patrizia Sandretto Re Rebaudengo. “Fra queste pagine, quel filo rosso è diventato un progetto a più voci che ha unito le forze per parlare dei cambiamenti del mondo delle donne: artiste, collezioniste, direttrici di musei, architette, scienziate. Nessun separatismo, le storie che abbiamo scelto, insieme con la direttrice Silvia Grilli e lo staff di Grazia, superano la tradizionale categoria di ‘femminile’, nell’editoria così come nell’arte, per portarci in un territorio di ricerca, uno spazio plurale, aperto sul presente, sensibile al diritto all’autodeterminazione, al di là di nascita e appartenenze”.
La copertina del numero è un’opera della pittrice e fotografa polacca Paulina Olowska intitolata Weeds (2017 - Courtesy Fondazione Sandretto Re Rebaudengo) che attraverso un nudo femminile - genere che nella storia dell’arte è stato per lo più appannaggio dello sguardo maschile - reclama la propria libertà di espressione.
Per raccontare il suo percorso, Patrizia Sandretto Re Rebaudengo si è affidata alle domande attente del giornalista Dario Maltese e insieme hanno parlato di arte, emozioni e futuro. Si prosegue poi con Hans-Ulrich Obrist, curatore d’arte e direttore artistico delle Serpentine Galleries di Londra, che intervista per Grazia l’architetta messicana Frida Escobedo, che realizza progetti nati dal suo bisogno di comunicare.
E il mondo scoprì le artiste è invece un’inchiesta approfondita sui grandi talenti dimenticati dalla storia. Pittrici e scultrici hanno infatti dovuto lottare e affrontare una moltitudine di ostacoli che non hanno diminuito il loro valore, ma spesso ne hanno cancellato traccia. Storiche dell’arte e curatrici stanno così adottando nuove strategie per restituire loro visibilità, mettendo in atto una vera e propria rivoluzione creativa.
Anche la moda è in linea con il tema portante del giornale: i bijoux americani degli Anni 30 collezionati da Patrizia Sandretto re Rebaudengo saranno abbinati a look liberi e anticonformisti e avranno come sfondo le opere della pittrice Pia Krajewski.
Sulle pagine della rivista ci sono poi due artisti che vanno oltre le definizioni di genere, lasciando spazio alle loro visioni: si parla di arte e natura con Jota Mombaça e di linguaggi e inclusione con Diana Anselmo.
Anche il rapporto tra arte e cinema è strettissimo: il grande schermo ha raccontato le vite e il tormento dei geni della pittura e Paola Malanga, direttrice artistica della Festa del Cinema di Roma, ha scelto per Grazia le pellicole da non perdere.
Nella sezione dedicata alla cultura, con la collaborazione della Fondazione Sandretto re Rebaudengo, vengono spiegati i percorsi artistici formativi e segnalate le 10 mostre dell’inverno da non perdere che guidano i lettori e le lettrici in un viaggio di linguaggi diversi.
Infine uno spazio è dedicato anche alle eccellenze mediche al servizio della salute delle donne della Fondazione IEO-MONZINO ETS, di cui Patrizia Sandretto Re Rebaudengo è presidente. A parlare delle conquiste nelle terapie e nella prevenzione decisive per le pazienti sono la specialista di senologia Viviana Galimberti e la cardiologa Daniela Trabattoni.
© Riproduzione riservata