Diario di una scrittrice pronta a tutto. Secondo capitolo
Parafrasando la Bibbia, quella parola scritta nel capitolo diciotto, pagina duecentoquarantadue, trentesima riga, continua a turbare la sensibilità di mia suocera. Le fonti sono attendibili — sono state Emma e Ringhio a riferirmelo — e non posso ignorarle.
Credevo avesse capito che l’ironia è l’ingrediente principale del romanzo e che il titolo di ‘strega’ che le ho attribuito è solo un termine contestualizzato a una situazione descritta: non può farne una questione personale. E poi nessuno ci farà caso.
“Lo sai che alla festa due ragazze mi hanno riconosciuto...”
“Alberta: ti ho fatto diventare una piccola celebrità!”
“Mi hanno indicato dicendo: ‘ecco, lei è la strega’ e poi si sono messe a ridere.”
E va bene. Forse ho un tantino esagerato, ma dovrebbe saperlo che uno scrittore non può farsi condizionare dai suoi personaggi — anche se sono
permalosi. Siamo tutti sacrificabili per un disegno più grande e un romanzo mi pare che lo sia.
Ma non sarò impulsiva, le porgerò le mie scuse di nuovo, poi le preparerò uno schema per chiarire che l’ironia solletica il sistema nervoso provocando la risata, ribadirò che è solo il mio mestiere — business is business — e alla fine, le suggerirò di leggere il libro una seconda volta e di goderselo per ciò che è.
Qualcuno lo ha descritto come una storia di pregiata semplicità: dovrei farci un hashtag e lei dovrebbe essere lusingata di farne parte. E mentre mi domando se avrò mai il suo perdono, il telefono squilla.
Rispondo ed è ancora Carmen dell’agenzia letteraria.
“Ciao tesoro! Come stai?”
“Bene grazie, non ti disturbo, vero?”
Potrei essere al Conad con il carrello pieno zeppo di spesa e la cassiera che mi chiede il pin del bancomat che ho dimenticato, e non mi disturberebbe.
“Certo che no, tesoro, dimmi pure.”
“Radio Radio ti ha invitato per un’intervista. Dovresti essere lì alle tredici, prima dell’appuntamento con Gallucci. Che ne pensi, si può fare?”
Me lo sta chiedendo? È seria?
“Vedrò di farcela.”
Fino a oggi ho fatto due interviste radiofoniche al telefono: una con Radio Number One, l’altra con Radio Bruno, ma la sola in cui sono stata di persona è quella di Giovanni D’Onofrio, il mio amico break dancer/dj che cito nel libro. Una piccola casetta giallo zafferano situata nel bel mezzo delle campagne modenesi, proprio di fronte alla sede del PD: Radio Joe.
Ora, per dovere di cronaca, credo sia giusto chiarire che Giovanni nel romanzo c’è finito per caso. Il suo nome è sulla carta stampata per sua gentile concessione, ottenuta solo dopo avergli raccontato tutta la verità — in una telefonata.
“Vorrei mettere il tuo nome nel libro...”
Dall’altra parte: il silenzio.
Forse si sta chiedendo il motivo, in fondo, ci siamo visti solo una decina di volte nella vita, e la maggior parte di esse, insieme a una crew di giovani ballerini che avevo adescato per un video di adidas.
Cosa vorrà in cambio questa vecchia?
Ma la verità è che quell’esperienza radiofonica mi è rimasta nel cuore, e siccome la casa editrice mi chiede di sostituire un nome, ho deciso che il suo è il solo possibile: se lo merita.
“Ti spiego che succede: c’è un capitolo del libro, in cui racconto di una ‘comparsata’ a Radio 105...”
Joe rimane in silenzio.
Mi accerto che sia ancora vivo, glielo domando senza mezze misure, lui risponde di sì e io vado avanti con la storia.
“Naturalmente mi sono inventata tutto, ma cito uno dei conduttori, il mio preferito per essere esatti, che però non mi dà l’autorizzazione a mettere il suo nome. Mi piacerebbe mettere il tuo, visto che sei stato l’unico a ospitarmi in radio.”
Non ho nemmeno bisogno di ripetere la domanda, lui si mette a ridere, è felicissimo. Mi chiede quando uscirà il libro e dopo avergli comunicato la data ufficiale — che ancora non posso divulgare — aggiunge che tre giorni dopo sarà il suo compleanno: si farà un regalo e lo comprerà.
Mi congratulo con me stessa per aver fatto questa scelta, Joe era entusiasta di fare parte della squadra, ed è così dovrebbe essere.
La mattina seguente è l’alba a svegliarmi — e un terribile mal di testa, che non posso permettermi.
Ieri sera ho lavorato fino a tardi, e ora mi sembra di avere uno scalpello conficcato nelle tempia di sinistra, mentre quella di destra per rispondere all’urto, batte più forte: non vedrò mai gli studi di Canale 5.
Bicchiere mezzo pieno dove sei? Perché mi hai abbandonato?
Eccolo: sul tavolo della cucina, accompagnato da un cucchiaio e da una bustina di ketoprofene. Mi sento già meglio, corro a vestirmi.
Esco di casa con appena cinque minuti di ritardo — rispetto alla tabella di marcia che mi sono prefissata — ma recupererò per strada. So come
fare. Non ho bevuto per tutto il viaggio e ignorando la sete, ho risparmiato due pause pipì all’Autogrill, riuscendo così ad arrivare a Roma con un
po’ di anticipo.
Parcheggio e raggiungo il civico che mi è stato indicato, salgo le scale e mi trovo di fronte a un portone spalancato. Cerco il nome della radio sui campanelli, lo trovo, suono e mi invitano a salire. Una signora bruna con la capigliatura da Tina Turner mi accoglie e mi fa strada lungo il corridoio per condurmi nel salottino di pelle bianca, che sta di fronte alla sala di registrazione. Francesco che è già in onda, mi saluta alzando la mano.
“Tra poco tocca a Lei.” dice la signora dopo avermi fatto accomodare.
Mi ha dato del Lei?
Mi pare evidente che l’idea di indossare un mini abito fucsia svolazzante per togliermi qualche anno non abbia funzionato. Ma ho ancora la diretta per sfoggiare il mio spirito giovanile, punterò tutto su quello.
Dopo cinque minuti, sono in onda anch’io.
Gesù non mi ha ancora abbandonato, lo capisco dalla poltroncina girevole che mi ha messo a disposizione, non è lo sgabello irraggiungibile che descrivo nel libro, su cui mi sarei dovuta arrampicare.
Mi siedo, infilo le cuffie e mi avvicino al microfono.
L’intervista va bene, tengo le mani salde ai braccioli della seduta, sforzandomi di non gesticolare e ci riesco. Riesco anche a svelare un piccolo segreto riguardo alla copertina. Francesco mi chiede il perché di quel bambino con l’ombrello, rispondo che non sono stata io a sceglierlo, ho solo proposto il titolo e il colore della copertina, che inizialmente era celeste, ma la cosa curiosa è che quel bambino mi ricorda Georgie, il bambino di It, e il mio libro inizia proprio con lo stesso incipit del famoso romanzo di Stephen King. Sarà un caso?
A intervista finita, ringrazio ed esco dalla sala piena di soddisfazione. Saluto e torno alla macchina per raggiungere Mediaset. La pipì non è ancora contemplata. E mentre metto in conto che potrei perdere un rene per sempre, arriva un messaggio di Ringhio: la mia vita è scandita dal telefono.
Mi scrive che è già arrivata, ma non la fanno entrare: è in anticipo. Continuo a ripetermi che il ritardo abbia il suo perché. Me la trovo di fronte dieci minuti più tardi. È bellissima, ha un look fresco e il make-up perfetto che da sempre la distingue.
Mi bacia, mi abbraccia, ma subito dopo, il suo pollice si precipita sul mio zigomo per eliminare un eccesso di illuminante.
Ha l’espressione di chi preferisce non esprimersi, ma sono quasi certa che si stia chiedendo se in radio mi sia presentata così. Mento per sollevarle lo spirito.
“Deve essere stato il ritocco che mi sono fatta in macchina prima.”
Non se la beve: lo capisco dal suo sguardo rassegnato, ma entrambe preferiamo lasciare cadere il discorso e ci incamminiamo: è giunta l’ora.
Le guardie all’ingresso, che ci chiedono di mostrare i documenti, mi procurano la stessa agitazione di un posto di blocco, come se non ne avessi già abbastanza, ma poi è una signora gentile che viene a ritirarci in portineria a metterci a nostro agio.
È una donna magrissima dall’aspetto interessante. Indossa una mise sportiva: camicia, jeans, sneakers; si chiama Debora, ha gli occhi celesti, e porta le lenti da vista.
Dopo averci spiegato come funziona la messa in onda, anticipando che ogni giorno vengono registrate diverse interviste e che non è prevista una programmazione, ci chiede gentilmente di dare la precedenza a un altro autore più anziano, che sta arrivando. Acconsento, ci mancherebbe.
Nel frattempo, Debora ci accompagna alla reparto ‘trucco e parrucco’ e io mi sento una star: una star con la crescita.
Il parrucchiere mi chiede cosa voglio fare.
“Un ritocco alla base!” rispondo in tono scherzoso per camuffare l’imbarazzo provocato dai capelli bianchi che spuntano dalla radice.
Anche lui si mette a ridere.
Mi scuso, aggiungo di essere imperdonabile, ma questa cosa dell’intervista è capitata così, tra capo e collo — come una ghigliottina — e avevo già fissato l’appuntamento per il colore, ma per domani. E so che avrei dovuto mettermi il mascara per i capelli per nasconderlo, ma... Il parrucchiere mi zittisce accendendo il phon e riprende la piega del giorno prima.
Perché racconto sempre i fatti miei?
Mi rimprovero spesso per questo. Ma oggi sono qui per un’intervista, magari a qualcuno fa piacere sapere che la mia pianificazione della cura personale, a volte lascia un po’ desiderare. Non si può essere sempre perfetti: sono umana anch’io — o almeno credo.
Al momento del make-up, la ragazza dei pennelli mi fa notare che sono già truccata — certo, vorrei rispondere, ho appena fatto un passaggio radio, mica potevo presentarmi al naturale, anche Ringhio non l’avrebbe presa bene. Dice che si limiterà a sistemare ombretto e fard. Così sia.
Alla fine, sono identica a prima, ma psicologicamente pronta ad affrontare Gallucci. Ho solo bisogno di un caffè.
Ringhio lo trova: in una saletta adibita alla ristorazione, adiacente a un cortile interno su cui sorge una pianta imponente ricoperta di fiori fucsia. Valeria, che ha un pollice decisamente più verde del mio, la identifica con un nome preciso: lagerstroemia speciosa, per me, è solo un delizioso accessorio cromatico che pare messo lì, giusto per uno scatto con il libro.
A interrompere il nostro shooting amatoriale è un taxi che si ferma proprio nel cortile, Valeria ripone il telefono nella borsa, io abbandono la posa plastica e ci mettiamo sull’attenti, curiose di sapere di chi si tratti.
Come supponevo, è il mio agente letterario. Accompagna un signore anziano, che presumo sia l’autore a cui ho ceduto il posto. Il dottore viene verso di me con il suo sorriso smagliante, mi saluta, ma anche lui, seppure mi voglia bene, sbaglia il mio nome.
“Alessia...”
Cerca di dribblare facendo vibrare l’ultima vocale, quasi fosse il prolungamento di un saluto, alza il braccio verso l’alto per farsi suggerire dal Padre Celeste il nome giusto, e ci sorprende con un: “Enrica... come sta?”
Io e Valeria tiriamo un sospiro di sollievo.
“Bene dottore, grazie, e Lei?” chiedo avvicinandomi per abbracciarlo.
“Sono orgoglioso di presentarle Raffaele La Capria.” mi dice. “Una delle voci più significative del panorama letterario italiano.”
“Molto lieta.” dico timidamente stringendogli la mano.
Immagino la differenza di spessore culturale che sta tra lui e me — se dolessi paragonarla a qualcosa, direi a un abisso — ma la mia voglia di sprofondare viene interrotta da una sua frase, pronunciata mentre ricambia la mia stretta. Chiede se sono l’autrice simpatica del libro fucsia. Annuisco, sorrido.
Debora, che nel frattempo si è materializzata davanti a noi, li accompagna nello studio di registrazione, noi restiamo lì ad aspettare il nostro turno.
“Amo! Sai chi è?” mi chiede Valeria con l’aria di chi conosce la risposta.
È in momenti come questo che la vita dovrebbe metterti a disposizione un gobbo di Wikipedia per evitarti la classica figura da ignorante. “Certo che lo so, è il marito di Ilaria Occhini, l’attrice di ‘Mine vaganti’.”
I suoi occhi dicono una cosa sola: tutto qui? Vorrei ribadire che è il cinema la mia specialità, ma prima che possa peggiorare la situazione, lei interviene:
“Ha collaborato con Lina Wertmüller da sceneggiatore, ha studiato ad Harvard e ha vinto un sacco di premi alla carriera, anche il Premio Strega per ‘Ferito a morte’, uno dei suoi libri più importanti...”
“Mi spieghi come fai a saperlo?” le chiedo basita.
“L’ho letto su Wikipedia mentre vi stavate presentando.”
Ah, meno male.
Ora, sarà meglio concentrarmi su quello straccio di discorso che ho preparato ieri sera: se riesco a ripeterlo senza esitare e senza gesticolare, sarà perfetto.
“Prêt-à-bébé è la storia di una ragazza insicura, che vive un dramma adolescenziale piuttosto tipico: è in lotta con il suo corpo. Ma un giorno decide di cambiare il suo modo di vedere le cose, di concedersi una possibilità, e in concomitanza a questo desiderio, Enrica incontra Giaco, che diventa presto il grande amore della sua vita. I due sono coraggiosi e vogliono mettere su famiglia, ma da dove si comincia?
In senso fisico, nella bellissima Positano, in senso pratico, mettendo in gioco tutti i sentimenti possibili e immaginabili.
E quando arrivano Emma e Carola, si inizia a fare sul serio.
Il tema principale potrebbe sembrare la maternità, ma il concetto è più ampio: come fa una mamma a mantenere il ruolo di donna, nonostante la gravidanza e la nascita di un bambino che le sconvolge la vita?
Prêt-à-bébé non è un manuale, è una storia. Una storia con un sottofondo cinematografico, scritta da chi crede che la vita sia un film: tutto
dipende da come la si racconta. Sigla!”
Lo ripeto mentalmente per una decina di volte, come una poesia, peccato che Valeria mi stia suggerendo di ‘andare a braccio’, di essere spontanea.
Improvvisare? A Canale 5? Non esiste. L’ansia mi sta divorando, quando Debora riappare chiedendoci di seguirla.
Dunque tocca a me, a me e alla mia poesia, ma prima che possa recitarla, il dottore e Raffaelle La Capria, escono dallo studio e tornano da noi. Il dottore chiede allo scrittore di lasciarmi una dedica sul suo nuovo libro ‘Il fallimento della consapevolezza’, ma anche lui ci mette un po’ per intendere il mio nome. Avrei voglia di semplificargli le cose, di suggerire Alessia e di finirla lì. E invece ce la fa, scrive: ‘A Enrica con il mio augurio. Raffaele La Capria.’
I due ci salutano e arriva Carlo Gallucci. La musichetta di Profondo Rosso torna a farsi viva nella mia mente, ma mi trovo di fronte a un uomo dall’aria accomodante. Mi invita a prendere posto, porgendomi qualche domanda prima di iniziare.
Quella che più mi incuriosisce riguarda Giaco: esiste davvero?
Ora, mi rendo conto che gli uomini pazienti e innamorati rappresentino una rarità nel genere maschile, ma rispondo di sì. Gli mostrerei anche un’immagine sul telefono, se ne avessi una recente, ma lui non ama farsi fotografare: dovrà credermi sulla parola.
Mi chiede se scrivere è la mia unica attività, rispondo che i miei lettori occupano un posto importante nella mia vita, e anche nel mio lavoro. Si sorprende che risponda a tutti. Affermo che non potrebbe essere altrimenti: sono stati loro che, dall’inizio, mi hanno fatto sentire una vera scrittrice senza libro in libreria. Si complimenta e mi domanda se sono pronta a registrare.
“Sì, certo.” rispondo, “Ecco vede: io mi sarei preparata un discorsetto per non farle perdere tempo, che ne pensa?”
“Preferirei che ‘andassi a braccio’, sii spontanea... vedrai che andrà bene.”
Ancora questa storia del braccio? E la mia poesia? Dio come vorrei che fosse un’intervista in playback in cui tutto fila liscio come l’olio. E invece, mi tocca un vero e proprio live.
3,2,1. Sbaglia lui, si ricomincia.
Nel frattempo Ringhio, inconsapevole di essere entrata nello studio clandestinamente, fa un reportage fotografico completo, anche ai cameraman.
Carlo Gallucci mi dà il via. “Allora Enrica, cosa ci racconti del tuo Prêt-à-bébé?” Mi piace il tono francese con pronuncia il titolo del mio romanzo: mi
esalta.
Decido che il ‘braccio’ lo lascio agli altri, vado con la filastrocca, ma il finale si conclude in modo misero. Rimpiango di non aver detto quel ‘sigla!’ che chiudeva la sceneggiatura. Quello sì che avrebbe spaccato, e invece mi è uscito un ‘così’ insieme a quindici punti di sospensione. Se fosse un hashtag sarebbe #insicurezza.
Siamo comunque soddisfatti entrambi e decidiamo per un ‘buona la seconda’.
Anche questa è andata.
Salutiamo, Valeria viene ripresa da Debora per essere entrata senza autorizzazione, io ne approfitto per fare pipì.
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Jodie Foster: "Faccio film per capire chi sono"
Come trascorre il giorno del suo compleanno una diva planetaria come Jodie Foster, sotto i riflettori dall’età di tre anni? «Lavorando», mi risponde accomodata sulla poltrona, mentre sorseggia un cappuccino. Neanche a farlo apposta la incontro proprio il giorno in cui compie 63 anni e mi confida che finita l’intervista andrà con gli amici a festeggiare. Sessant’anni di carriera tondi, fresca del Golden Globe vinto a gennaio per la sua performance nella serie True Detective: Night Country, la regista e attrice torna al cinema con il nuovo film di Rebecca Zlotowski Vita Privata. Presentato in anteprima al Festival di Cannes e dall’11 dicembre al cinema, la vede calarsi nei panni della nevrotica psichiatra Lilian Steiner, ossessionata da un caso molto delicato.
Che rapporto ha con il passare del tempo?
«Buono. Mi sento più felice che mai in vita mia».
Davvero?
«Parlo di una gioia profonda, non di quello che mi accade giorno per giorno. Le cose della vita, belle e brutte, capitano. Ma vivo un momento in cui il lavoro sta andando sempre meglio e ho superato l’ansia delle domande: “Sarò in grado di farcela con le mie forze?”, “Avrò una famiglia?”. Tutte questioni archiviate, per fortuna non devo più preoccuparmene. Da giovane passavo tanto tempo a pensare a me stessa, dopo una certa età mi sono concentrata sulle storie degli altri, è più facile e divertente».
Anche in Vita privata ascolta le storie degli altri.
«La mia Lilian non è una psichiatra risolta, anzi, è parecchio nevrotica. Non riesce a comprendere come sia possibile che la sua paziente in cura da nove anni (Virginie Efira, ndr) si sia potuta uccidere. Non ci crede, non ammette la possibilità che lei, in quanto psichiatra, sia stata così sorda».
Ritiene che come società abbiamo perso il potere di ascoltare?
«Mostrare curiosità verso gli altri è tutto. Noi attori siamo allenati all’ascolto, per lavoro siamo chiamati a calarci nelle vite degli altri ed è una bella abitudine mettersi nei panni altrui, un esercizio che possiamo fare tutti. Ci aiuterebbe come società».
Dal titolo del film alla realtà, essendo conosciuta in tutto il mondo sin da piccola come ha fatto a proteggere la sua, di vita privata?
«Sforzandomi sempre molto. Lavorando sin da bambina sapevo di dovermi proteggere: volevo andare a Disneyland, ma senza le telecamere che mi seguissero. Volevo essere libera di andare al supermercato, o prenotare un volo senza che nessuno lo facesse al posto mio. Ci ho sempre tenuto a mantenere viva la mia indipendenza, tracciando una linea netta tra la mia vita pubblica e quella privata. Oggi sono contenta di aver seguito quell’impulso».
Nel film la sentiamo sfoggiare un francese fluente…
«Mi fa sentire più sicura di me, rispetto all’inglese. Sarà che devo la passione per il francese a mia madre, che me lo fece studiare».
Come mai?
«Non aveva mai viaggiato fuori dagli Stati Uniti fino ai cinquant’anni, ma la cultura europea l’affascinava. Comprava di continuo riviste e libri su Parigi e Napoleone, addirittura dipinse le pareti di casa con i colori delle antiche pietre romane. Quando ero bambina fece il viaggio dei suoi sogni e andò in Francia, con un tour in bus di quelli turistici».
Che cosa le disse al ritorno?
«"Jodie, impara il francese e diventa una grande attrice francese". Era il suo modo di dirmi che sognava per me una vita più ampia di quella americana. Anche perché erano gli anni 70, al potere c’era Nixon, non era facile essere americani. A mia madre piaceva l’idea che potessi scegliere di essere libera di inventarmi una vita tutta mia».
Ha fatto lo stesso con i suoi figli?
«Dovrebbe chiederlo a loro (Charlie e Kit, 27 e 24 anni, ndr). Intanto uno di loro sa parlare benissimo il tedesco, le mie radici tedesche ne sono contente».
Che rapporto ha con la psichiatria?
«Sempre stata scettica, ma una volta mi sono fatta ipnotizzare».
Com’è andata?
«Mi ripetevo: "Ma perché pagare 90 dollari a un tipo quando potrei smettere di fumare gratis oggi stesso?", eppure ha funzionato. Non amo la psicanalisi, per quanto la trovi attraente da un punto di vista cinematografico: non mi piace Freud, in America nessuno lo stima più, era un grandissimo sessista. Trovo però importante che al cinema si parli di salute mentale».
E che si mostri come le donne over 50 abbiano desideri, diritto al piacere e una vita sessuale appagante, come la sua Lilian con l’ex marito interpretato da Daniel Auteuil: perché tutto questo al cinema si vede ancora poco?
«Dovremmo parlare per ore della rappresentazione del corpo femminile. Purtroppo i pregiudizi sulle donne dopo una certa età sopravvivono, non solo al cinema. Ma sono speranzosa: registe come Zlotowski dimostrano di voler raccontare le donne per quello che sono, con tutti i loro desideri. La mia Liliane non è solo una psichiatra, una madre e una nonna, ma una donna che si esprime anche attraverso il corpo».
Con Auteuil avete avuto un intimacy coordinator?
«È una figura che ho scoperto sul set di True Detective. Ho detto: "Che lavoro pazzesco, dov’eri tu quando avevo 16 anni?". Ormai io e Auteil abbiamo superato i 60 e abbiamo risolto senza, ma sono contenta che questa figura esista, era importante che ci fosse».
Che cosa di lei non hanno mai capito finora?
«Non sono seria come credono. Non ho mai capito perché il pubblico mi affibbi quest’aura di serietà, io sono una persona leggera. Certo, se mi fanno domande serie rispondo in modo serio e amo fare lavori significativi, ma se sapeste com’è la mia giornata ideale cambiereste idea».
Com’è la sua giornata ideale?
«Sveglia presto, sci ai piedi, la sera una partita di calcio in tv e una cena gustosa. Altro che tormentata, sono una persona felice e ottimista verso il futuro».
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Come trasformare l'eredità in un'opportunità per i propri figli
Elena Valzania ha 57 anni e vive a Ravenna, in una casa che ha ereditato dalla sua famiglia. Cresciuta in un contesto economicamente stabile, è stata segnata più di quanto pensasse da ciò che ha ricevuto in eredità: non solo beni, ma un intero modo di vivere e pensare il denaro. «I nostri familiari conducevano vite semplici, risparmiavano e investivano».
A un certo punto, la malattia entra nella sua storia familiare e si intreccia alle questioni economiche. Il padre di Elena si ammala gravemente, per poi morire quando lei ha 20 anni. Insieme con i beni materiali, Elena riceve anche un’eredità invisibile: l’idea che il lavoro debba essere per forza fatica. Un peso silenzioso che la accompagna a lungo, anche dopo la laurea in Farmacia, quando si avvicina all’omeopatia e inizia a lavorare. «Rispetto allo studio, lavorare mi sembrava facilissimo, ma proprio per questo mi pareva che non valesse abbastanza». E infatti, quando viene assunta in una cooperativa di Bologna, non negozia lo stipendio.
La sua carriera aziendale si interrompe durante la sua prima maternità: l’azienda viene acquisita e, al rientro dal congedo, capisce che stanno cercando di spingerla alle dimissioni.
Da allora, Elena non è più rientrata nel mondo del lavoro “ufficiale”. I soldi necessari ad andare avanti, però, in un modo o nell’altro, entrano. Ed Elena procede nella sua vita, con una leggerezza sconosciuta ai suoi familiari. Che le è concessa, però, anche grazie all’eredità materiale ricevuta da loro: «Mio marito e io abbiamo sempre avuto la mentalità di investire sulla nostra famiglia. Tuttora siamo concentrati sul mantenere i nostri tre figli agli studi e i beni di famiglia sono un mezzo per sostenere questa nuova generazione».
Parola all'esperta: le polizze come strumento di tutela
RISPONDE ELENA BELLUCCI DELL’AGENZIA ALLEANZA DI EMPOLI (FI)
1) Come si gestisce un’eredità ricevuta?
«Ricevere un’eredità può risultare persino destabilizzante, specie se si tratta di grandi somme, e senza una gestione attenta il rischio è di sperperare il patrimonio o di non trarne vantaggio. È insomma necessaria un’attenta pianificazione che parta dai bisogni dell’individuo o della famiglia, ragione per cui può essere molto utile affidarsi a un buon consulente assicurativo e finanziario. Tra le soluzioni possibili ci sono le polizze di investimento, che combinano l’opportunità di investimento con la componente assicurativa, che offre una protezione sul capitale o sul rischio di vita. Ne esistono di diversi tipi: con quelle a capitale garantito, per esempio, si ha la certezza che il capitale che sarà restituito all’uscita dall’investimento non sarà inferiore a quello versato».
2) Che vantaggi hanno, rispetto alle altre soluzioni?
«Le polizze da investimento sono nate per chi desidera assicurare un sostegno economico ai propri cari, anche in caso di decesso, con l’aggiunta di un rendimento. Offrono però anche altri vantaggi: uno dei più importanti sta nel fatto che il capitale così collocato non rientra nell’asse ereditario e non viene considerato nel calcolo dell’eredità ai fini della tassa di successione. In caso di morte del contraente le somme passano al beneficiario, nel rispetto delle quote di eredità legittime disponibili, e questo rende la polizza un ottimo strumento per tutelare le coppie non sposate o i minori».
Testo di Annalisa Monfreda
*co-fondatrice di Rame, rameplatform.com
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«Quanto ti dicono: "se non puoi violentare tua moglie, chi puoi violentare?"»: l'editoriale di Silvia Grilli
In una scena di C'è ancora domani, la protagonista Delia, costretta dal marito brutale a un rapporto sessuale, toglie un granellino di polvere dal comodino, completamente estranea a quanto le sta accadendo. La dissociazione è un'autodifesa comune tra le vittime di stupro.
Una ragazza che intervistai mi raccontò che, durante la violenza, cercava di ricordare le parole delle sue canzoni preferite. Era come congelata nel panico: non urlò, non si mosse, terrorizzata di subire ulteriori aggressioni.
Jessica Mann, una delle testimoni al processo contro il produttore stupratore Harvey Weinstein, ha ricordato di essere rimasta immobile, mentre lui la violentava. Mann ha citato in tribunale uno studio scientifico sulle difese messe in atto da esseri umani e animali. Questi ultimi si fingono morti di fronte a un attacco, perché così i predatori sembrano perdere interesse. Ma, per ironia della sorte, è proprio l’immobilità della vittima a mettere in dubbio la credibilità delle donne nei dibattimenti per stupro. «Non si è mossa, quindi vuol dire che ci stava».
Giorgia Meloni ed Elly Schlein hanno voluto una legge per cambiare la vecchia norma, secondo la quale è reato solo se si viene costrette ad atti sessuali con modi violenti o minacce. Le due leader condividono l’idea che il consenso debba essere dichiarato all’inizio e durante il rapporto.
L’atto sessuale deve avvenire per libera scelta, non per ricatto, abuso di potere o quando la volontà è ridotta per effetto di alcol o sostanze. E non è consenso solo perché si era detto «sì» in passato o perché si è sposati. Il silenzio o l’inerzia non sono acquiescenza, ma una conseguenza della violenza stessa. E ci si può tirare indietro, anche dopo aver, inizialmente, condiviso l’approccio.
La legge, nata dal patto Meloni-Schlein, è stata approvata all’unanimità dalla Camera dei deputati. Ma al Senato, nella Giornata contro la violenza degli uomini sulle donne, è stata bloccata e rinviata. Il ministro Matteo Salvini sostiene che «Il consenso preliminare lascia spazio a vendette personali che intaserebbero i tribunali».
Cioè, la magistratura si ritroverebbe con orde di donne che mentono. Sinceramente, non ho mai visto in Italia tutta questa folla di femmine pronte ad accusare per incastrare qualcuno. Sinceramente, mi pare il contrario: le vittime non denunciano perché conoscono bene gli interrogatori e il calvario che dovrebbero sopportare se lo facessero. Sinceramente, mi sembra una bocciatura per paura di perdere i privilegi maschili.
In una scena del film After the Hunt - Dopo la caccia, Julia Roberts dice a una studentessa che accusa un professore di stupro: «Non denunciare, altrimenti diventerai radioattiva. Il nostro sistema è dominato dai maschi. Ne avrai bisogno quando chiederai lavoro, e non lo otterrai perché saranno terrorizzati che un giorno tu possa accusare anche loro».
La notte del weekend scorso, a Milano, una ragazza ha denunciato per violenza un giovane con il quale si era allontanata. «Mi ha violentata», ha detto. «Era consenziente», ha ribattuto lui. Un consenso che fino a un certo punto c’è stato. Poi non più.
Lo stupro non è stupro solo se ti costringono con la pistola puntata alla tempia. Lo è anche quando io non voglio o non voglio più. Vale anche nel caso di rapporti sessuali tra conviventi: solo «sì» è «sì».
Anni fa, un senatore californiano si oppose a una legge contro lo stupro nel matrimonio, dicendo: «Se non puoi violentare tua moglie, chi puoi violentare?». Ecco, è proprio questo il concetto: né il corpo di tua moglie né quello della ragazza che si allontana con te, poi cambia idea, ti appartengono. Il loro corpo è loro, non tuo.
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GRAZIA presenta il numero straordinario "L'arte è donna" con direttrice ospite Patrizia Sandretto Re Rebaudengo
Grazia, il magazine di Reworld Media diretto da Silvia Grilli, presenta il numero straordinario L'arte è donna. Il talento e il coraggio di artiste, galleriste, progettiste, collezioniste sono il filo conduttore di questa edizione speciale che ha come direttrice ospite Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, fondatrice e presidente della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, collezionista e mecenate riconosciuta a livello internazionale.
“Nella storia dell’arte le donne sono state cancellate o relegate al ruolo di mute muse ispiratrici, tagliate fuori dalle scuole, dalle botteghe degli artisti”, dichiara Silvia Grilli, direttrice di Grazia. “Con questo numero abbiamo voluto invece raccontare il talento femminile che c’è e c’è sempre stato, la creatività, pervicacia e abnegazione delle artiste donne, il loro sguardo diverso. Quando ho chiesto a Patrizia Sandretto Re Rebaudengo di curare questo numero di Grazia, ho trovato un’interlocutrice appassionata, capace di raccontare nel modo migliore quel genio che non è appannaggio esclusivo degli uomini”.
“Questo numero speciale contiene storie, opere e luoghi che raccontano la mia vita con l’arte contemporanea, sul filo di una grande passione, un sogno, una visione che seguo e inseguo da oltre trent’anni”, spiega la direttrice ospite Patrizia Sandretto Re Rebaudengo. “Fra queste pagine, quel filo rosso è diventato un progetto a più voci che ha unito le forze per parlare dei cambiamenti del mondo delle donne: artiste, collezioniste, direttrici di musei, architette, scienziate. Nessun separatismo, le storie che abbiamo scelto, insieme con la direttrice Silvia Grilli e lo staff di Grazia, superano la tradizionale categoria di ‘femminile’, nell’editoria così come nell’arte, per portarci in un territorio di ricerca, uno spazio plurale, aperto sul presente, sensibile al diritto all’autodeterminazione, al di là di nascita e appartenenze”.
La copertina del numero è un’opera della pittrice e fotografa polacca Paulina Olowska intitolata Weeds (2017 - Courtesy Fondazione Sandretto Re Rebaudengo) che attraverso un nudo femminile - genere che nella storia dell’arte è stato per lo più appannaggio dello sguardo maschile - reclama la propria libertà di espressione.
Per raccontare il suo percorso, Patrizia Sandretto Re Rebaudengo si è affidata alle domande attente del giornalista Dario Maltese e insieme hanno parlato di arte, emozioni e futuro. Si prosegue poi con Hans-Ulrich Obrist, curatore d’arte e direttore artistico delle Serpentine Galleries di Londra, che intervista per Grazia l’architetta messicana Frida Escobedo, che realizza progetti nati dal suo bisogno di comunicare.
E il mondo scoprì le artiste è invece un’inchiesta approfondita sui grandi talenti dimenticati dalla storia. Pittrici e scultrici hanno infatti dovuto lottare e affrontare una moltitudine di ostacoli che non hanno diminuito il loro valore, ma spesso ne hanno cancellato traccia. Storiche dell’arte e curatrici stanno così adottando nuove strategie per restituire loro visibilità, mettendo in atto una vera e propria rivoluzione creativa.
Anche la moda è in linea con il tema portante del giornale: i bijoux americani degli Anni 30 collezionati da Patrizia Sandretto re Rebaudengo saranno abbinati a look liberi e anticonformisti e avranno come sfondo le opere della pittrice Pia Krajewski.
Sulle pagine della rivista ci sono poi due artisti che vanno oltre le definizioni di genere, lasciando spazio alle loro visioni: si parla di arte e natura con Jota Mombaça e di linguaggi e inclusione con Diana Anselmo.
Anche il rapporto tra arte e cinema è strettissimo: il grande schermo ha raccontato le vite e il tormento dei geni della pittura e Paola Malanga, direttrice artistica della Festa del Cinema di Roma, ha scelto per Grazia le pellicole da non perdere.
Nella sezione dedicata alla cultura, con la collaborazione della Fondazione Sandretto re Rebaudengo, vengono spiegati i percorsi artistici formativi e segnalate le 10 mostre dell’inverno da non perdere che guidano i lettori e le lettrici in un viaggio di linguaggi diversi.
Infine uno spazio è dedicato anche alle eccellenze mediche al servizio della salute delle donne della Fondazione IEO-MONZINO ETS, di cui Patrizia Sandretto Re Rebaudengo è presidente. A parlare delle conquiste nelle terapie e nella prevenzione decisive per le pazienti sono la specialista di senologia Viviana Galimberti e la cardiologa Daniela Trabattoni.
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