Claire Danes: la spia innamorata

Non solo intrighi e terroristi. Le nuove puntate della serie tv Homeland vedono l’attrice divisa tra dovere e famiglia. «Un tema», dice, «che mi appassiona da quando ho un figlio». E a Grazia spiega perché, alla fine, quella per la felicità è l’unica battaglia che conti

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Incontro Claire Danes durante una breve vacanza che si è concessa dalle riprese di Homeland, la serie tv di grandissimo successo (e di spiazzante aderenza alla realtà) in cui da cinque stagioni interpreta un’agente della Cia alle prese contro il doppio volto del terrorismo.
Poche settimane fa l’avevo vista sorridente in un abito firmato Oscar de la Renta rosso fuoco sulla Walk of Fame di Los Angeles fotografata con la nuova stella a suo nome, consacrazione di tutti i grandi divi, che si è aggiunta sul marciapiede. Oggi, però, è solo una mamma tranquilla e rilassata. Questa pausa dal lavoro le dà, infatti, l’opportunità di godersi la famiglia: il marito, l’attore e modello britannico Hugh Dancy, e il loro bambino Cyrus, di 2 anni e mezzo.
La curiosa coincidenza è che Claire è impegnata a fare la brava mamma e compagna anche nei nuovi episodi di Homeland, che riparte su Fox il 30 ottobre. La ritroviamo infatti a Berlino, dove il suo personaggio lavora per un’organizzazione filantropica dopo aver lasciato lo spionaggio. Un salto in avanti di due anni rispetto all’ultima puntata della scorsa stagione. Istintivamente mi chiedo dove potrebbe essere Danes tra un paio di anni. E la risposta mi sembra quasi scontata: al cinema.
L’attrice era stata lanciata come grande promessa da film come Romeo + Giulietta di William Shakespeare del 1996 e, un anno dopo, L’uomo della pioggia. Ma è stato il piccolo schermo a far decollare la sua carriera. Il film per la tv Temple Grandin (2010) le è valso un Emmy e un Golden Globe, mentre Homeland, del quale al momento è anche produttrice, le ha fruttato ancora due Emmy e due Golden Globe, facendola diventare uno dei volti più amati dal grande pubblico. L’ultimo film girato, As Cool As I Am, è del 2013 e sono pronto a scommettere che tornare a imporsi sul grande schermo sarà prima o poi la sua prossima sfida.
Ma quello che conta è che adesso, in questa suite del Four Seasons Hotel di Los Angeles, Claire sorride radiosa. Voglio capire se lo fa per il suo presente ricco di successi o per quel futuro a cui si sta già preparando.

Finora in Homeland il suo personaggio, Carrie, è sempre stato molto oltre i limiti: spia controcorrente, in cura per un disturbo bipolare, innamorata di un terrorista, intrappolata nei doppi giochi. Vederla sorridere nelle scene girate a Berlino con la figlia Frannie in questa nuova stagione della serie televisiva è stata una novità piacevole. Merito di mamma Claire Danes?
«Non c’era niente di cui sorridere negli episodi precedenti. È stato sorprendente anche per me vedere il mio personaggio che si abbandona a una relazione sincera e serena con qualcuno che non avesse a che fare con il suo lavoro. Certo, al di là di questo, io e Carrie siamo due tipi di donna davvero differenti».

Lei e suo marito Hugh avete un bambino di 2 anni e mezzo e siete abituati a lavorare anche per molti mesi in continenti diversi. Come vi organizzate?
«A dire il vero, stiamo ancora cercando una nostra modalità. L’anno scorso stavo girando in Sudafrica e lui è arrivato da me dicendo: “Ho trovato un nuovo lavoro in Australia”. Abbiamo dovuto passare tanto tempo lontani e da quell’esperienza abbiamo imparato una lezione: non l’avremmo fatto mai più. Stavolta lui e Cyrus sono stati con me per la maggior parte delle riprese e ora che lui sta girando a New York, l’ho seguito. Va bene che sono abituata ai ritmi stressanti e alle sfide impossibili, ma se hai una famiglia, devi starle il più possibile vicino. Insomma, dopo tanta fatica, anche nella mia vita privata sono pronta a fare entrare un po’ di leggerezza».

Lo sta dicendo perché in Homeland, nei panni dell’agente Carrie, si sente intrappolata in un ruolo drammatico?
«Non mi sento assolutamente in trappola. Anzi, sapere di aver trovato una formula che funziona è addirittura un sollievo. Ogni nuova stagione di Homeland rappresenta una storia nuova e la sfida di un pubblico da riconquistare».

L’arrivo di suo figlio Cyrus ha cambiato le sue priorità e quelle della sua carriera?
«No, perché è un bambino davvero bravissimo e di ottimo carattere: ha sempre dormito ovunque ci trovassimo nel mondo e non è mai stato capriccioso o geloso di mamma o papà. E questo nonostante le nostre vite non proprio regolari, i viaggi continui, il jet lag. Cyrus ha 2 anni e mezzo e il passaporto già pieno di timbri».

Quante persone vi aiutano in casa?
«Abbiamo una tata che ci segue ovunque: è importante dare sicurezze ai bambini piccoli. Cyrus intanto impara tutto a modo suo: sta cominciando a dire “No”, ma curiosamente lo dice in tedesco, “Nein”. Lo ripete continuamente. Quindi mi trovo davanti alla doppia frustrazione, quella di una madre che si sente rifiutare tutto, e per di più in un’altra lingua».

E suo marito che tipo di padre è?
«Lui è il classico genitore inglese, quello che insiste perché Cyrus dica sempre “grazie” e “per favore”. Naturalmente su questo andiamo d’accordo, come su tutto il resto: non è fortuna, ci siamo scelti. Anche se siamo nati in Paesi diversi, veniamo da famiglie piuttosto simili. Il difficile con nostro figlio, invece, è che appena crediamo di aver trovato il modo giusto di rapportarci con lui, Cyrus cresce, si evolve e cambia comportamenti. E dobbiamo ricominciare tutto da capo».

Che cosa avete imparato come genitori?
«Che ci piace esserlo. È come vedere la persona che sei riflessa in uno specchio, ovvero tuo figlio. I tuoi modi di fare, quello che dici, le cose che fai anche senza accorgertene, vengono assorbite da questa piccola persona. E ti tornano indietro».

Il suo ruolo in Homeland è molto complesso. Quando è sul set e si cala nei panni di Carrie, come cambia la sua vita di tutti i giorni?
«Ho imparato abbastanza bene, ogni volta che faccio ritorno a casa, a lasciare il mio lavoro fuori dalla porta. Diverso, però, è trovare l’energia da riversare sul set: i tempi della televisione sono molto veloci, quindi il difficile è centrare subito la battuta e andare verso il ciak successivo. Però un aspetto positivo c’è: non hai il tempo materiale di tormentarti troppo su come avresti potuto dire la tua battuta. Un’ottima cosa per la salute mentale di qualunque attore».

Uno dei motivi del successo di Homeland è la sua estrema aderenza all’attualità. La serie tv ha parlato di terrorismo, dei bombardamenti con i droni, del Califfato e dei fondamentalisti islamici. Tutto questo ha cambiato la sua visione del mondo?
«Non sono mai stata un’appassionata di politica, ma Homeland mi ha aperto gli occhi su quanto sia complessa la vita di chi si occupa di spionaggio, di quanto vasto sia quel mondo e di come anche la nostra sicurezza dipenda dal lavoro di tanti sconosciuti che agiscono nell’ombra. Inoltre ho scoperto che a volte la distinzione tra governi amici e nemici è poco chiara, e questo è abbastanza spiazzante».

Come mai, secondo lei, una serie come questa ha così tanti fan nel mondo?
«In generale perché affronta temi internazionali e perché il terrorismo, ormai, è un demone comune a tanti Paesi. C’è poi un aspetto più sottile che riguarda noi americani: siamo abituati a considerare gli Stati Uniti come una nazione infallibile e potente, invece il nuovo terrorismo ci mostra fragili e vulnerabili come tutti gli altri».

Che cosa succederà nella nuova stagione?
«Carrie ha lasciato la Cia e, incredibilmente, è a Berlino, felice con la sua famiglia per almeno cinque minuti. Poi tutto cambierà, ma stavolta al centro della vicenda ci saranno le attività di alcuni criminali informatici e il traffico di informazioni riservate. Per Carrie sarà il solito bivio tra voglia di essere felice, in pace, e l’istinto di rispondere al richiamo del dovere. D’altronde quando sei una donna con un particolare talento, non puoi far finta di niente».

A proposito di femminilità, com’è il rapporto con il lato glamour del suo lavoro?
«Rispetto al passato, oggi il momento del red carpet è diventato importantissimo. Una volta, se eri un’attrice, ti bastava prendere un bel vestito in un negozio e andare tranquilla alla prima del tuo film. Adesso c’è molta più pressione intorno alla nostra immagine e, di conseguenza, sugli abiti che indossiamo. Ma se sei una ragazza che ama la moda, e io lo sono, non puoi che rispettare il lavoro degli stilisti e sentirti onorata quando uno di loro ti propone una sua creazione».

Come vede tra due anni Carrie, il suo personaggio? E, soprattutto, come vede se stessa?
«Prima di tutto vorrei che Carrie vivesse a lungo, fatto che considerati i colpi di scena di Homeland non puoi dare troppo per scontato. E poi, scherzi a parte, vorrei che il mio personaggio fosse felice, provasse quella gioia gratificante e piena a cui aspiri quando hai una famiglia. Sto dicendo una cosa che suonerà un po’ mielosa, ma credo che anche una donna forte possa meritarsi una vita di affetti e tenerezza».

Non ha risposto alla seconda parte della mia domanda, quella che riguarda lei.
«No, si sbaglia. Credo proprio di averle risposto, invece».

Così saluto Claire, dopo aver capito finalmente perché sorride.

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«Se la strage in spiaggia o il saccheggio alla Stampa sono definiti "resistenza"»: l'editoriale di Silvia Grilli

Silvia Grilli
Il nuovo numero di Grazia è ora in edicola. Ecco l'editoriale della Direttrice Silvia Grilli

La resistenza è necessaria con ogni mezzo», «con Hamas fino alla vittoria», «ora e sempre resistenza». Sono slogan che sentiamo nelle piazze di tutto il mondo alle manifestazioni contro Israele.

Per chi li inneggia possono essere innocua teoria, opinioni a favore della Palestina o semplicemente parole urlate per non sentirsi esclusi dal gruppo, non una chiamata alle armi per massacrare i presunti oppressori. Ma c'è sempre chi prende la teoria alla lettera. Domenica 14 dicembre, quegli slogan sono stati scritti con il sangue degli ebrei.

Un padre e un figlio pachistani hanno sparato sulla folla che celebrava il primo giorno della festa religiosa ebraica dell’Hanukkah su una spiaggia famosa per le nuotate al tramonto. Quindici morti e decine di feriti sono rimasti sulla sabbia a Bondi Beach, uno dei posti più belli, pacifici e gioiosi dell’Australia. Il primo ministro Anthony Albanese ha dichiarato che non riesce a spiegarsi tutto questo male. Io credo sia molto spiegabile: per gli invasati che considerano Israele il male assoluto, massacrare gli ebrei è fare giustizia.

È la colpa dei giudei che spinge giovani ProPal a saccheggiare la redazione del quotidiano La Stampa (paradossalmente uno dei più favorevoli alla causa palestinese). Induce quel centinaio di manifestanti a scrivere e urlare slogan terroristi come “Stampa-Morta” o «giornalista sei il primo della lista», mentre una loro guru, Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite, riduce l'assalto a un «monito ai giornalisti».

Nella tradizione ebraica, Hanukkah è la festa della luce, della speranza. Colpire bambini, anziani e adulti che festeggiano la vita non è diverso da quando il 7 ottobre i terroristi di Hamas fecero strage al Nova Festival. Sparare sulla spiaggia in un momento storico in cui c'è qualche passo verso la pace è voler cancellare la speranza nel futuro.

Eppure, ho ancora fiducia che l’umanità possa superare l’odio. Domenica 14 dicembre, in Australia, questa speranza aveva i gesti di un uomo: Ahmed Al Ahmed, fruttivendolo immigrato siriano, che si è precipitato su uno dei terroristi e gli ha strappato il fucile. Aveva le gambe di Jackson Doolan, il bagnino veterano della spiaggia, ex star di Baywatch in Australia, che è corso a piedi nudi per un chilometro e mezzo portando il borsone dei medicinali. Aveva le braccia di tutti coloro che si sono adoperati per salvare le vittime, sollevandole sulle tavole di soccorso che di solito vengono usate per trasportare la gente a riva.

Gli orrori si ripetono, sembrano non volersi fermare. Ma se le persone corrono ad aiutare, se ci sono solidarietà e compassione, c’è ancora speranza nell’umanità.

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Grazia è in edicola con Maya Hawke

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Ecco cosa vi aspetta nel nuovo numero di Grazia, da oggi in edicola e su app

Maya Hawke è la protagonista di copertina Grazia in edicola e app. Si è fatta conoscere con la serie Stranger Things, arrivata all’ultima stagione. Ora l’attrice newyorkese figlia delle star Uma Thurman ed Ethan Hawke, girerà il nuovo capitolo di Hunger Games dove vuole portare l’energia di chi non ha paura di crescere.

Questa settimana intervistiamo alcune icone di Hollywood. Incontriamo Zoe Saldana, al cinema nel ruolo di Neytiri, la madre combattente di Avatar. Parliamo con Ariana Grande, in corsa ai Golden Globe con Wicked e le attrici premio Oscar Jodie Foster e Laura Dern.

Il 2025 ha cambiato noi e la Storia. Grazia lo ripercorre. Dal ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca alla guerra a Gaza. Dalle vittorie di Jannik Sinner all’elezione del primo Papa americano fino alla scomparsa di icone come Ornella Vanoni e Giorgio Armani.

Grazia ha scelto i personaggi da tenere d'occhio nel 2026: le sciatrici Sofia Goggia e Lindsey Vonn attese alle Olimpiadi invernali, María Corina Machado, premio Nobel per la Pace che potrebbe cambiare le sorti del Venezuela, Lady Gaga in arrivo in concerto in Europa e molti altri. Da Can Yaman a Jacob Elordi, da Timothée Chalamet a Jeremy Allen White, che cos’hanno in comune i nuovi sex symbol? Mettono d’accordo mamme e figlie. Grazia ve li racconta.

Abiti dorati, trasparenze, ricami e dettagli preziosi. Grazia ha scelto i capi che ti rendono protagonista delle notti di festa e delle serate più speciali. Ma anche lo stile più cool per il 2026.

E nelle pagine dedicate alla bellezza trovate tutti i segreti per brillare: dalle strategie effetto freddo per una pelle più tonica alla scelta del fondotinta e del correttore giusti per illuminarla.

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Jodie Foster: "Faccio film per capire chi sono"

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Jodie Foster festeggia al cinema 60 anni da star. Nel thriller Vita privata, da oggi nelle sale, è una psicanalista tormentata. Ma a noi racconta come, grazie alla sua carriera, ha capito che le donne over 50 hanno tutte le carte per vincere

Come trascorre il giorno del suo compleanno una diva planetaria come Jodie Foster, sotto i riflettori dall’età di tre anni? «Lavorando», mi risponde accomodata sulla poltrona, mentre sorseggia un cappuccino. Neanche a farlo apposta la incontro proprio il giorno in cui compie 63 anni e mi confida che finita l’intervista andrà con gli amici a festeggiare. Sessant’anni di carriera tondi, fresca del Golden Globe vinto a gennaio per la sua performance nella serie True Detective: Night Country, la regista e attrice torna al cinema con il nuovo film di Rebecca Zlotowski Vita Privata. Presentato in anteprima al Festival di Cannes e dall’11 dicembre al cinema, la vede calarsi nei panni della nevrotica psichiatra Lilian Steiner, ossessionata da un caso molto delicato.

Che rapporto ha con il passare del tempo?

«Buono. Mi sento più felice che mai in vita mia».

Davvero?

«Parlo di una gioia profonda, non di quello che mi accade giorno per giorno. Le cose della vita, belle e brutte, capitano. Ma vivo un momento in cui il lavoro sta andando sempre meglio e ho superato l’ansia delle domande: “Sarò in grado di farcela con le mie forze?”, “Avrò una famiglia?”. Tutte questioni archiviate, per fortuna non devo più preoccuparmene. Da giovane passavo tanto tempo a pensare a me stessa, dopo una certa età mi sono concentrata sulle storie degli altri, è più facile e divertente».

Anche in Vita privata ascolta le storie degli altri.

«La mia Lilian non è una psichiatra risolta, anzi, è parecchio nevrotica. Non riesce a comprendere come sia possibile che la sua paziente in cura da nove anni (Virginie Efira, ndr) si sia potuta uccidere. Non ci crede, non ammette la possibilità che lei, in quanto psichiatra, sia stata così sorda».

Ritiene che come società abbiamo perso il potere di ascoltare?

«Mostrare curiosità verso gli altri è tutto. Noi attori siamo allenati all’ascolto, per lavoro siamo chiamati a calarci nelle vite degli altri ed è una bella abitudine mettersi nei panni altrui, un esercizio che possiamo fare tutti. Ci aiuterebbe come società».

Dal titolo del film alla realtà, essendo conosciuta in tutto il mondo sin da piccola come ha fatto a proteggere la sua, di vita privata?

«Sforzandomi sempre molto. Lavorando sin da bambina sapevo di dovermi proteggere: volevo andare a Disneyland, ma senza le telecamere che mi seguissero. Volevo essere libera di andare al supermercato, o prenotare un volo senza che nessuno lo facesse al posto mio. Ci ho sempre tenuto a mantenere viva la mia indipendenza, tracciando una linea netta tra la mia vita pubblica e quella privata. Oggi sono contenta di aver seguito quell’impulso».

Nel film la sentiamo sfoggiare un francese fluente…

«Mi fa sentire più sicura di me, rispetto all’inglese. Sarà che devo la passione per il francese a mia madre, che me lo fece studiare». 

Come mai?

«Non aveva mai viaggiato fuori dagli Stati Uniti fino ai cinquant’anni, ma la cultura europea l’affascinava. Comprava di continuo riviste e libri su Parigi e Napoleone, addirittura dipinse le pareti di casa con i colori delle antiche pietre romane. Quando ero bambina fece il viaggio dei suoi sogni e andò in Francia, con un tour in bus di quelli turistici».

Che cosa le disse al ritorno?

«"Jodie, impara il francese e diventa una grande attrice francese". Era il suo modo di dirmi che sognava per me una vita più ampia di quella americana. Anche perché erano gli anni 70, al potere c’era Nixon, non era facile essere americani. A mia madre piaceva l’idea che potessi scegliere di essere libera di inventarmi una vita tutta mia».

Ha fatto lo stesso con i suoi figli?

«Dovrebbe chiederlo a loro (Charlie e Kit, 27 e 24 anni, ndr). Intanto uno di loro sa parlare benissimo il tedesco, le mie radici tedesche ne sono contente».

Che rapporto ha con la psichiatria?

«Sempre stata scettica, ma una volta mi sono fatta ipnotizzare».

Com’è andata?

«Mi ripetevo: "Ma perché pagare 90 dollari a un tipo quando potrei smettere di fumare gratis oggi stesso?", eppure ha funzionato. Non amo la psicanalisi, per quanto la trovi attraente da un punto di vista cinematografico: non mi piace Freud, in America nessuno lo stima più, era un grandissimo sessista. Trovo però importante che al cinema si parli di salute mentale».

E che si mostri come le donne over 50 abbiano desideri, diritto al piacere e una vita sessuale appagante, come la sua Lilian con l’ex marito interpretato da Daniel Auteuil: perché tutto questo al cinema si vede ancora poco?

«Dovremmo parlare per ore della rappresentazione del corpo femminile. Purtroppo i pregiudizi sulle donne dopo una certa età sopravvivono, non solo al cinema. Ma sono speranzosa: registe come Zlotowski dimostrano di voler raccontare le donne per quello che sono, con tutti i loro desideri. La mia Liliane non è solo una psichiatra, una madre e una nonna, ma una donna che si esprime anche attraverso il  corpo».

Con Auteuil avete avuto un intimacy coordinator?

«È una figura che ho scoperto sul set di True Detective. Ho detto: "Che lavoro pazzesco, dov’eri tu quando avevo 16 anni?". Ormai io e Auteil abbiamo superato i 60 e abbiamo risolto senza, ma sono contenta che questa figura esista, era importante che ci fosse».

Che cosa di lei non hanno mai capito finora?

«Non sono seria come credono. Non ho mai capito perché il pubblico mi affibbi quest’aura di serietà, io sono una persona leggera. Certo, se mi fanno domande serie rispondo in modo serio e amo fare lavori significativi, ma se sapeste com’è la mia giornata ideale cambiereste idea».


Com’è la sua giornata ideale?

«Sveglia presto, sci ai piedi, la sera una partita di calcio in tv e una cena gustosa. Altro che tormentata, sono una persona felice e ottimista verso il futuro».

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Come trasformare l'eredità in un'opportunità per i propri figli

Elena Valzania x Alleanza
L'eredità di famiglia può assicurare un sostegno economico ai propri cari. Basta sottoscrivere una polizza di investimento adeguata, affidandosi a un bravo consulente

Elena Valzania ha 57 anni e vive a Ravenna, in una casa che ha ereditato dalla sua famiglia. Cresciuta in un contesto economicamente stabile, è stata segnata più di quanto pensasse da ciò che ha ricevuto in eredità: non solo beni, ma un intero modo di vivere e pensare il denaro. «I nostri familiari conducevano vite semplici, risparmiavano e investivano».

A un certo punto, la malattia entra nella sua storia familiare e si intreccia alle questioni economiche. Il padre di Elena si ammala gravemente, per poi morire quando lei ha 20 anni. Insieme con i beni materiali, Elena riceve anche un’eredità invisibile: l’idea che il lavoro debba essere per forza fatica. Un peso silenzioso che la accompagna a lungo, anche dopo la laurea in Farmacia, quando si avvicina all’omeopatia e inizia a lavorare. «Rispetto allo studio, lavorare mi sembrava facilissimo, ma proprio per questo mi pareva che non valesse abbastanza». E infatti, quando viene assunta in una cooperativa di Bologna, non negozia lo stipendio.

La sua carriera aziendale si interrompe durante la sua prima maternità: l’azienda viene acquisita e, al rientro dal congedo, capisce che stanno cercando di spingerla alle dimissioni.

Da allora, Elena non è più rientrata nel mondo del lavoro “ufficiale”. I soldi necessari ad andare avanti, però, in un modo o nell’altro, entrano. Ed Elena procede nella sua vita, con una leggerezza sconosciuta ai suoi familiari. Che le è concessa, però, anche grazie all’eredità materiale ricevuta da loro: «Mio marito e io abbiamo sempre avuto la mentalità di investire sulla nostra famiglia. Tuttora siamo concentrati sul mantenere i nostri tre figli agli studi e i beni di famiglia sono un mezzo per sostenere questa nuova generazione».

Parola all'esperta: le polizze come strumento di tutela

RISPONDE ELENA BELLUCCI DELL’AGENZIA ALLEANZA DI EMPOLI (FI)

1) Come si gestisce un’eredità ricevuta?
«Ricevere un’eredità può risultare persino destabilizzante, specie se si tratta di grandi somme, e senza una gestione attenta il rischio è di sperperare il patrimonio o di non trarne vantaggio. È insomma necessaria un’attenta pianificazione che parta dai bisogni dell’individuo o della famiglia, ragione per cui può essere molto utile affidarsi a un buon consulente assicurativo e finanziario. Tra le soluzioni possibili ci sono le polizze di investimento, che combinano l’opportunità di investimento con la componente assicurativa, che offre una protezione sul capitale o sul rischio di vita. Ne esistono di diversi tipi: con quelle a capitale garantito, per esempio, si ha la certezza che il capitale che sarà restituito all’uscita dall’investimento non sarà inferiore a quello versato».

2) Che vantaggi hanno, rispetto alle altre soluzioni? 
«Le polizze da investimento sono nate per chi desidera assicurare un sostegno economico ai propri cari, anche in caso di decesso, con l’aggiunta di un rendimento. Offrono però anche altri vantaggi: uno dei più importanti sta nel fatto che il capitale così collocato non rientra nell’asse ereditario e non viene considerato nel calcolo dell’eredità ai fini della tassa di successione. In caso di morte del contraente le somme passano al beneficiario, nel rispetto delle quote di eredità legittime disponibili, e questo rende la polizza un ottimo strumento per tutelare le coppie non sposate o i minori».

Testo di Annalisa Monfreda
*co-fondatrice di Rame, rameplatform.com