Mi sto interrogando sulla femminilità: vecchio dibattito, sempre attuale. Tra pochi giorni a Milano cominceranno le sfilate e vedremo come la pensano gli stilisti. Che spesso con le tendenze ci “beccano”.
Tutto è cominciato da quei maledetti capelli, di cui vi ho già parlato quest’estate . Dopo molti dubbi e molti ripensamenti, ho vinto l’impulso di tagliarli, come è mia abitudine da decenni a questa parte (praticamente da quando dispongo liberamente della mia testa).
E quindi adesso circolo con una sorta di carré, che viene giudicato dalla mia redazione molto “femminile”. E la cosa, sono costretta ad ammetterlo, mi imbarazza. Come se quell’aggettivo non c’entrasse con me.
Dopo la terza volta che reagivo con disagio a quello che è certamente un complimento, ho provato a rifletterci: ma come, proprio io, l’estimatrice delle donne, che da sempre lavora per loro, non amo l’aggettivo che le rappresenta?
Per associazione mi sono ricordata di un articolo geniale che ho letto, ormai parecchi anni fa, ma mai dimenticato, di Natalia Aspesi: era una dissertazione sul rosa e su quanto fosse stato nei secoli discriminato.
In maniera super spiritosa, la giornalista dimostrava come tutti gli altri colori avessero sempre avuto dignità, mentre il rosa, essendo legato al femminile, veniva dipinto (è proprio il caso di dirlo) come una tonalità inferiore, insulsa, zuccherosa.
Romanzi rosa, cioè da donnicciola. Guardare il mondo con occhiali rosa, cioè con un ottimismo infantile e irrealistico. Il blu, il nero sono autorevoli, il rosa no. Che cosa c’entra tutto questo con i miei capelli? C’entra, perché per molte di noi, cresciute a colpi di attacchi al rosa, l’aggettivo femminile, nonostante tutto, rimanda ancora a quello stereotipo.
E a quello che, per tanti anni, ci hanno insegnato significa essere una donna: le brave bambine vestono di rosa, non dicono le parolacce, non si sporcano, sono gentili, obbedienti e un sacco di altre cose, che ci innervosiscono parecchio. Bellezza, morbidezza, gentilezza (ma perché finiscono tutti in ezza?) sono dei valori, se non ti vengono imposti praticamente con la forza.
Sto esagerando, perché ormai nulla, o quasi, può più esserci imposto, essendo noi donne libere e indipendenti (boom!). A parte la moda, ovviamente, che spadroneggia sui nostri gusti e ci orienta, di stagione in stagione, nella scelta di che donna
essere.
Dalle sfilate di Londra a quelle di New York, da Milano a Parigi, nelle prossime settimane scopriremo come ci vestiremo l’anno prossimo. Ma soprattutto, insisto, che donne saremo.
Perché questo fanno gli stilisti: colgono nell’aria i cambiamenti e li traducono in tendenze. E così, dopo averci trasformate tutte in donne/uomini, quando ci vestivamo con tailleur maschili e tentavamo di scalare il potere, ci hanno convinte che la carta da giocare era un’altra ed era quella della seduzione.
Strette dentro vestiti che non lasciavano nulla all’immaginazione, e poco anche al respiro, e inerpicate su tacchi 12, siamo state salvate dal minimalismo: un pantalone dritto, una camicia bianca (io veramente vesto così da quando avevo 16 anni, felice intuizione). Come ci avranno dipinte questa volta? Come sempre, ve lo racconteremo in anteprima.
Io, comunque, mi sto addestrando per imparare, quando mi dicono “sei femminile”, a ringraziare. Senza mordere.
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