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La ragazza è tornata: Grazia incontra Violetta Bellocchio dopo l’uscita di Electra, il romanzo che racconta moltitudini e il presente

La ragazza è tornata: Grazia incontra Violetta Bellocchio dopo l'uscita di Electra, il romanzo che racconta moltitudini e il presente

foto di Daniela Losini Daniela Losini — 10 Dicembre 2024
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Violetta Bellocchio è tornata a frequentare gli spazi del mondo fisico e digitale: l'abbiamo incontrata in occasione dell'uscita di Electra, il suo ultimo romanzo

Grazia e Violetta Bellocchio si sono incontrate spesso nel tempo: anni fa quando venne rilanciato il magazine con un occhio al digitale, decisamente un atteggiamento pioneristico che mi sento di dire che abbiamo mantenuto, Violetta era parte di un gruppo di giornaliste e autrici che avrebbero raccontato il loro modo di affrontare la vita.

In un passaggio di sceneggiatura immaginaria avremmo una dissolvenza a nero e un fast forward. Siamo nel 2024 esce per Il Saggiatore il suo nuovo romanzo di non fiction, Electra.

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Violetta Bellocchio è tornata a frequentare gli spazi del mondo fisico e digitale dopo essere stata Barbara Genova, l’identità che l’ha abitata in seguito a uno strappo vissuto causato da un’aggressione sessuale. Barbara Genova ha scritto e pubblicato moltissimo in lingua inglese. Ha navigato poesia, narrativa, articoli. La scrittura come costante, la scrittura come la nave di Penny.

Electra è un granitico libro-stele che prova a decodificare il presente da una prospettiva personale. Non ci sono sconti per nessuno a cominciare dal flusso di pensieri, considerazioni e fatti che vengono raccontati in tutta la loro esplicita crudezza.

Come è nata Electra e com’è evoluta l’idea del libro dalla sua genesi?

Eccoci qui. Intanto sono abbastanza felice di essere ospite qui su Grazia, visto che sulla versione di carta ci ho tenuto una rubrica e ci ho scritto da ragazza per circa un anno invece di andare in rehab (ha funzionato!). Il libro nasce da una piccola quantità di materiali/appunti che via via mettevo da parte mentre ancora stavo scrivendo per diverse riviste in lingua inglese con il nome Barbara Genova e soprattutto mentre stavo vivendo blindata, senza che nessuno avesse accesso alla mia identità precedente - né alla mia vita di tutti i giorni sul piano personale. Volevo raccontare la storia di alcuni anni in cui la mia vita era cambiata completamente: c’erano gli ultimi mesi della “vita pubblica” di Violetta Bellocchio, compreso un assalto da parte di uno sconosciuto per strada che mi aveva fiondato in un mondo non solo spaventoso ma profondamente stupido. C’era stato un lungo anno di isolamento e di relativa pace durante i lockdown del 2020, in cui avevo la possibilità di muovermi a volto coperto senza attirare l’attenzione di nessuno e c’erano poi stati i due anni in cui scrivevo in totale libertà con il nome Barbara Genova, senza lasciare in giro mezzo indizio della mia vita di prima. Tra l’altro io vivevo lontana dai riflettori e mi presentavo come Barbara ovunque andavo, con massima serenità e accettazione da parte dei vicini di casa, dei nuovi colleghi e via dicendo. Rispetto a un documento progettuale che avevo messo su carta per me, il libro finito è poi diventato più scorrevole.

Dentro Electra ci sono almeno quattro libri: come strutturi la tua produzione narrativa?

Questo libro in particolare è stato prodotto in maniera molto deliberata da parte mia. Forse non verrò presa sul serio come voce letteraria se dico la verità, ma visto chi invece è stato elevato a importante autore letterario, correrò volentieri questo rischio. Per portare a termine Electra sapevo di aver bisogno di una prima stesura rapida da parte mia, per non rischiare di perdere lo slancio tenendo il cantiere aperto troppo a lungo o di accanirmi sull’idea della pagina perfetta perdendo di vista il quadro del libro intero e la storia intera che volevo raccontare. La prima stesura è stata buttata fuori in due-tre mesi di lavoro disciplinato, con un cartellone coperto da Post-It che segnavano i diversi capitoli e i fatti (o gli umori) che volevo raccontare in ogni capitolo, con tutti i dettagli che stavano emergendo. Avevo un piano di produzione abbastanza strutturato in questo caso, proprio come se stessi scrivendo un thriller invece di un memoir. Se dentro “ci sono almeno quattro libri” (grazie!) è perché questo libro affronta un trancio di vita dove effettivamente a me stava succedendo di tutto e stava anche cambiando radicalmente il modo in cui io sceglievo di reagire o non reagire a quello che stava succedendo. La fase “vittima di un reato contro la persona che si preoccupa di collaborare con la polizia”, la fase “persona pubblica che cerca di rilanciare per vedere se il suo aggressore torna fuori a darle fastidio di nuovo”, la fase “persona pubblica che un po’ alla volta capisce di stare galleggiando a mala pena in un mare di deficienti che mentono in continuazione su qualsiasi cosa pur di posizionarsi nel Mondo della Cultura”, la fase “donna che comincia a toccare con mano quanto possa essere facile scivolare via inosservata, se evita le telecamere di sorveglianza, vende o regala i vestiti con cui è apparsa in fotografia”, e via. La prima stesura del libro funzionava come un lungo giro sulle montagne russe, per me che stavo scrivendo e per i lettori finali. La seconda e la terza stesura hanno significato riscrivere il libro per renderlo più scorrevole. Potevo arrivare allo stesso risultato rendendolo più fluido. L’importante era tenere il lettore sulla corda, in modo da fargli voltare la pagina senza staccarsi. Et voilà.

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Hai scritto Electra in anni complessi per la collettività mentre elaboravi un evento traumatico personale, cosa ha significato per te?

L’enorme lato positivo della mia scomparsa è stato che finalmente mi ero levata di torno e potevo cominciare a recuperare tutto quello che sentivo di aver perso lungo la strada. Sentivo di aver perso il desiderio di scrivere per amore della scrittura - perché quando la tua immagine di te viene compromessa dall’opinione degli altri, buona o cattiva, il tuo senso di te può arrivare a essere intaccato proprio dal “punto di vista” degli altri - e in buona parte avevo perso l’energia potente che avevo a inizio carriera. Il che è un paradosso, se l’unica cosa che mi aveva tenuto in pista negli anni era proprio la passione per il lavoro di scrittura e la determinazione a ricominciare. Succede. Ed ero in ottima compagnia, ho scoperto che tra il 2020 e il 2022 sono nate (o rinate) centinaia di riviste online, di podcast e di canali YouTube. Molte persone  desideravano dare a se stesse una seconda opportunità. Una mia collega, Katy Naylor, è passata dalla scrittura personale per arrivare a fondare e organizzare un festival dedicato al teatro interattivo: anche per lei la fermata obbligatoria dei lockdown è stata un accelerante, l’ha portata a occupare spazio mentre prima si teneva indietro.

Con buona pace delle polarizzazioni tanto care all’engagement e alla viralità, hai chiuso tutto e dato un tuo significato alla parola scomparsa, cosa ti ha insegnato/insegna Barbara Genova?

Barbara Genova non ha paura di avere poco engagement, ad esempio. Barbara è stata una scrittrice molto produttiva e anche molto costante, se nel giro di pochi mesi si stava costruendo un portfolio di pubblicazioni e una nuova rete di rapporti lavorativi puliti. Direi che mi ha insegnato quella che in italiano si chiama “la tigna”. Costanza e andare avanti spediti, e pensare al tempo medio-lungo, non alla fiammata di entusiasmo improvviso da parte di un pubblico volubile o di un tizio o tizia che di botto decide di prestarti attenzione.

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Non esisti se nessuno parla di te, se non ci sei attraverso foto, video, tag. Com’è stato radicalizzare la scelta di vivere l’assenza?

BELLISSIMO. “Radicalizzare” è il termine giusto, qui, grazie. Esistevo solo tramite qualche profilo social, altamente sorvegliato in maniera da non seminare nessun indizio accidentale: nemmeno scrivevo a mano. È stato elettrizzante scrivere tanto E BASTA, senza dovermi preoccupare di come il lavoro artistico sarebbe stato percepito in base a cose che con il lavoro artistico non c’entrano nulla come città natale, scuole frequentate, nomi e cognomi, “di chi sei amico? chi ti ha portato???”. Tra parentesi, mi è capitato recentemente di dover rispondere a domande sincere sul sessismo e sulla misoginia online durante una tappa al Festival di Passaggio. Se da un lato il sessismo è reale, dall’altro, in circa due anni di pubblicazione pseudata ma comunque con un nome femminile in bella evidenza Barbara Genova e qualche fotografia di parti umane (la mia schiena, le mie gambe), nessuno ha mai fatto commenti misogini o ha mai trovato nulla da ridire sul sesso di nascita. Questo ci tengo a segnalarlo perché mi pare che le ondate di misoginia che arrivano a toccare alcune persone in realtà non vadano proprio a colpire tutte le donne allo stesso modo. Intanto, però, io non avevo pensato per mezzo secondo a farmi passare per un uomo o a scegliere un nome maschile. Questo elemento dell’“assenza” non riesco a ricondurlo a una decisione particolare. Ho scelto di continuare a essere una donna che scrive, e sono diventata una pura mano di scrittura - quella che in gergo si chiama una voce - anche conservando una traccia con un nome femminile. Bene così.

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Scrivere poesia quale dimensione narrativa ti ha regalato?

La capacità di scrivere un testo breve che ha un inizio, un centro e una fine. Di fatto, i capitoli dei libri che scrivo adesso (Electra, ma anche il prossimo progetto) sono diventati molto più compatti. Ogni capitolo mette a fuoco un fatto, un personaggio o un luogo fisico in maniera molto più netta. Questo mi viene dalla poesia. Cosa metti sulla pagina? Stai allungando il brodo oppure stai entrando subito in quello che va detto?

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La dimensione pubblica della scrittura invece, ovvero le presentazioni dei libri, le fiere, le ospitate ai festival, come la vivi oggi?

Oggi la vivo molto meglio. La dimensione pubblica, come giustamente la chiami tu, diventa una normale parte del lavoro nel momento in cui uno scrittore (o un artista, o un regista, o un attore) sa di che cosa ha bisogno per poi saper portare avanti i nuovi progetti a porte chiuse. Ad esempio, io oggi so che ho bisogno di scrivere tanto e di avere sempre del materiale fresco su cui lavorare, senza vivere un singolo libro (o un singolo episodio di una serie) come se fosse un bene immobile. C’è un passaggio della prima metà del libro in cui racconto il nonsense snervante del dover restare sempre in circolazione - come autore che presenta un libro, come correlatore a una conferenza, come moderatore - con il refrain quanti altri giorni di questa merda prima di poter tornare alla vita civile, come lo sminatore di The Hurt Locker, che infatti alla fine del film sceglie di arruolarsi di nuovo perché la vita civile in una casa qualsiasi con la sua famiglia gli risulta anche meno sopportabile di una zona di guerra. Tra l’altro - per ora - gli incontri pubblici sono stati molto sani. Le persone arrivano a un festival o entrano in libreria perché sono incuriosite, non per assistere a uno spettacolo. Per inciso, nella mia prima e nella mia seconda vita ho potuto notare che alcune dinamiche sono davvero universali. Ho capito che un certo numero di artisti o scrittori bramano il palcoscenico, vogliono quello, vogliono essere famosi, ammirati o comunque sempre visti molto più di quanto gli piaccia il lavoro concreto. Le stesse dinamiche uguali uguali viste come Violetta Bellocchio e come Barbara Genova mi fanno pensare che siano proprio canon a questo punto. In ogni gruppo di artisti c’è il mentecatto insicuro che dice agli altri “dovresti fare questo, dovresti fare quello…”, così come c’è il vanitoso che punta strategicamente chi ha più successo o chi in un dato momento sembra più “considerato” rispetto alla media.

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Lo scrolling infinito richiede vigilanza continua e il prezzo per questa vigilanza oscilla tra la paranoia e il saldo costantemente a debito della nostra attenzione: quale è il tuo punto di vista?

Hmm. Io non ho un punto di vista stabile e immutabile, qui. “Metti giù il cellulare” è una cosa che mi capita di dire spesso ai miei amici, e la cosa va nei due sensi: ci teniamo d’occhio l’un l’altro. Ho un tweet di Dril piantato nel cuore, ed è questo:

« Who the fuck is scraeming "LOG OFF" at my house. show yourself, coward. I will never log off »

Un argomento post pandemia diventato quasi imperativo e per fortuna per certi aspetti, è la salute mentale: ma cosa ne pensi della compenetrazione del linguaggio terapistico nel lessico quotidiano e nei meme?

Ah, io sono MOLTO perplessa da questa cosa. Da un lato, la divulgazione pop relativa alle famigerate “questioni di salute mentale” ha portato nel lessico di tante persone diverse alcuni concetti quali “narcisismo maligno” e “narcisismo overt”. E questo è un bene. Ma io vedo il rovescio della medaglia che è una straordinaria immobilità, una determinazione a non fare nulla. Va bene, “stiamo parlando di depressione”, ma poi le persone si stanno attivando per curarsi in qualche modo, stanno cercando di cambiare stile di vita o di frequentare compagnie umane più adatte a loro? O stiamo invece rigurgitando “la depressione” come escamotage per poi non toccare nulla? Alcuni professionisti parlano dell’importanza di “infrangere lo stigma”. Di nuovo, ottimo, ma se “la depressione” o “l’ansia” o “il deficit di attenzione” diventano sagome in cui calarsi, mi pare che abbiamo combinato ben poco.

C’è qualcosa che ti piace della civiltà odierna?

I podcast. I box per fumatori negli aeroporti. E i piccoli spiragli di curiosità che vedo ancora spuntare qui e là.

Quale tipo di futuro immagini e se lo immagini, per il femminile.

Fatico a immaginare “un futuro” per il femminile. Voglio provare a immaginare un futuro in cui il sesso di nascita è solo un frammento microscopico tra i tanti che vanno a comporre una personalità e un corpo capace di produrre lavoro. Vedremo.

Artwork: Simona Rottondi

Ph.: Press Office / Courtesy Violetta Bellocchio

© Riproduzione riservata

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