Marco Mengoni: E poi mi sono sentito speciale
Alla vigilia del lancio del nuovo album, Marco Mengoni ricorda quando il successo era molto lontano, tutto era più difficile e lui si nascondeva. Finché ha capito che avrebbe potuto accettarsi. E ha cominciato ad amare
anche il suo naso
È sempre difficile iniziare un racconto. Di solito ci metto un po’ a trovare l’idea giusta. Questa volta no: finita l’intervista a Marco Mengoni, lunga, generosa, piena di spunti, avevo addirittura l’imbarazzo della scelta. Avrei potuto dirvi come mi sono preparata a quest’incontro, facendomi incuriosire e contagiare dall’entusiasmo della mia collega Daniela, sua super-fan: «Vedrai, è un ragazzo speciale, delicato, un po’ d’altri tempi». Oppure avrei potuto cominciare con l’ultima cosa che Marco mi ha detto: «Ha visto le foto di moda che mi hanno fatto?». Poi mi ha mostrato una cornice dove erano appiccicate le immagini di questo servizio. «Sono bellissime». Ma alla fine ho pensato che quello che ha reso davvero unico questo incontro è stato ascoltare con lui, nel suo studio di Milano, i cinque inediti del nuovo album, Marco Mengoni Live, in uscita: due dischi con tutto il repertorio dal vivo. Vedere come si emozionava, sentirlo cantare sottovoce sopra la sua voce registrata, commentare insieme ogni pezzo. Sì, lo so, sono stata ancora più privilegiata di chi sta dietro le quinte del suo tour, adesso in giro per l’Italia, tutto esaurito quasi ovunque, e che dal 6 dicembre sbarcherà in nove città europee, da Francoforte ad Amsterdam, da Zurigo a Varsavia.
Per chi non lo sapesse, Marco Mengoni è uno che non si accontenta mai. È soddisfatto del suo nuovo album?
«Diciamo che lo sono al 70-80 per cento, che per me è tantissimo. La verità è che quando sei sul punto di chiudere l’album, hai già voglia di stravolgere quello che hai fatto fino a quel momento perché mentre arrangi il disco, vivi, evolvi, cambi e ti vengono nuove idee».
Ci rivela un aspetto sorprendente di questo album?
«In alcuni brani inediti c’è molto soul. Magari è l’inizio di un nuovo progetto nella direzione “black”».
Abbiamo ascoltato insieme la canzone Proteggiti da me.
Nel testo parla di rimorsi. Lei ne ha?
«Sì. A volte non so fermarmi, capire che cosa mi sta succedendo. È come se mi scordassi di vivere. Chi fa il mio mestiere non ha una vita normale. Eppure io ne ho bisogno e combatto per averla. Ho la necessità di uscire la mattina, fare una passeggiata, la spesa, andare in un posto affollato, come tutti gli altri».
Che cosa la emoziona di più?
«Questo lavoro ti fa vivere a mille. Sul palco c’è un’energia pazzesca che penetra dentro. Poi quando torni a casa tutto sembra più piccolo e rischi di sminuire la quotidianità. Invece devi razionalizzare, chiederti: “Da che parte voglio stare?”. Pian piano capisci che vivi in due mondi diversi e anche la vita “normale” emoziona».
In che modo, per esempio?
«Sono il confessore di tutti i miei amici: mi chiedono consigli. Li ascolto, perché ho fame di esperienze, parole, racconti. So che, prestando attenzione agli altri, aiuto anche me stesso».
La musica le trasmetteva molta energia anche prima di raggiungere il successo?
«Sì, l’energia ti arriva comunque, anche se suoni ai matrimoni, come facevo da ragazzo. Ho iniziato a fare musica in modo un po’ inconsapevole, iscrivendomi a uno stage al Tuscia In Jazz Festival. Non avevo una grande cultura musicale, avevo ascoltato a malapena Summertime di Ella Fitzgerald: a 14 anni non sapevo nulla».
Lo stage era un regalo dei suoi genitori?
«No, l’ho pagato con i soldi che ho risparmiato lavorando nel bar di alcuni amici di famiglia. Ho iniziato a 14 anni: mi è servito, perché “Marco piccolo” faceva fatica a vivere in società. Mi sono messo alla prova e, con i soldi, ho comprato un computer, le casse, un software per crea-re musica e, dopo qualche anno, mi sono trasferito a Roma dove ho cominciato a lavorare in uno studio di registrazione come fonico».
La sua mamma era d’accordo che lei avesse un impiego a 14 anni, durante il tempo libero?
«Sono figlio unico e voleva che studiassi, che fossi il più bravo della classe. In realtà lo ero, frequentavo l’Istituto d’arte, ero anche l’unico ad avere 10 in condotta, ma forse le mamme ci vedono più fragili di quello che siamo».
Magari i suoi genitori volevano che lei avesse una vita diversa dalla loro.
«Forse sì, mia madre ha iniziato a lavorare da giovane nel negozio di abbigliamento di famiglia e anche mio padre ha cominciato presto. Ma forse anche no, altrimenti il mio papà, quando gli ho detto che volevo andare a vivere a Roma, non mi avrebbe mai detto: “Esci pure da casa, la scelta è tua. Ma io non ti mantengo”».
È stato coraggioso ad andarsene.
«Sì, ma ho fatto la fame per molto tempo: la sera lavoravo in un pub a Frascati, perché da fonico non riuscivo a guadagnare abbastanza».
Crisi o non crisi, ha guadagnato abbastanza per comprare una casa a Milano.
«Sì, ma l’ho acquistata con il mutuo».
Chi ha intuito per primo il suo talento?
«Il mio amico Gabriele, che adesso lavora in Marina. Un giorno facevamo il karaoke e lui mi ha detto: “Guarda che non sei niente male”. Lui suonava la batteria nel mio primo gruppo, che si chiamava The Brainless, “I senza cervello”. Io ero alle tastiere. Avevo iniziato a prendere lezioni di pianoforte, ma dopo qualche mese ho smesso: il solfeggio era troppo noioso. Però avevo capito come si facevano gli accordi: è una questione matematica».
Con il suo gruppo avete avuto successo?
«Volevamo vincere a tutti i costi un concorso musicale organizzato nel mio paese, Ronciglione, provincia di Viterbo. Gareggiavano quattro band. Noi cantavamo The Great Gig in the Sky dei Pink Floyd dove c’è una corista che urla come una pazza. Io la imitavo e suonavo anche le tastiere. Siamo arrivati ultimi».
Fisicamente, com’era da adolescente?
«Un’altra persona. Ero un mangiatore seriale di Nutella: una volta ne ho divorato tre chili in una settimana. Ho avuto talmente tante coliche che sono finito anche in ospedale».
Il video di una delle sue canzoni più amate, Guerriero, racconta la storia di un bambino vittima di bullismo. Lo è stato anche lei?
«Proprio bullizzato no, ma ognuno di noi ha assorbito un po’ di negatività a scuola: c’è sempre un gruppo che ti emargina. Da piccolo ero un solitario».
Per avere più fiducia in se stesso, a chi si è appoggiato? «Quando sei piccolo, è difficile ascoltare i genitori. I tuoi complessi puoi capirli solo tu. Io mi vergognavo, per esempio, di uscire con gli occhiali da sole: mi sembravano troppo estrosi. Se mia mamma mi diceva: “Stai bene”, oppure: “Non metterti i maglioni della taglia XXL”, non le davo retta. Il problema era solo nella mia testa, nell’accettazione del mio corpo. Mi coprivo tutto, con sciarpe e capelli lunghi».
Ha un naso bellissimo, ma da adolescente non le piaceva. Ha avuto bisogno del suo “esercito” di fan per capire che lei è davvero un bel ragazzo?
«No, ci sono arrivato prima. Avere complessi fa parte dell’essere umano. Inizi ad accettarti quando capisci che nel mondo non c’è nessuno come te: sei speciale, unico. E adesso il mio naso mi piace».
Nel 2015 è stato premiato al Senato come personaggio con maggior “Sentimento Positivo” dal Garante nazionale per l’infanzia e l’adolescenza. Nei testi delle sue canzoni parla spesso della forza e della fragilità nei ragazzi. È diventato un simbolo per molti giovani. Che effetto le fa?
«Ogni tanto mi viene un po’ d’angoscia: è come se tutti si aspettassero da me messaggi importanti. Mi chiedo: “E se sbaglio qualcosa?”. In realtà sono solo me stesso, non sto fingendo di essere una buona persona. Certo, anch’io ogni tanto bevo qualche bicchiere di vino e mi diverto con il burraco».
Burraco? Gioca a carte?
«Sì, spesso, con i miei amici. E chi perde deve fare qualcosa di stupido: entrare in un negozio e urlare alla cassiera: “Sei una matta”, o girare nudo in strada. In realtà non lo fa nessuno perché scegliamo penitenze troppo assurde».
È vero che le piace anche cucinare?
«Sì, mi rilassa molto. Ogni tanto organizzo cene a tema. Ne ho dedicata una al colore verde e il menu era tutto a base di pistacchio, dai supplì alle cotolette. Ho imparato da piccolo perché mio nonno paterno aveva un caseificio e un orto: preparavamo le verdure insieme. Ora faccio fare a mia nonna Jolanda dei video tutorial che lei manda via chat a tutti i nipoti. Viviamo a Milano in tre: io, mia cugina Claudia, che lavora con me, e Giulia, arrivata un mese fa a casa mia con il fidanzato. Il mio appartamento è un porto di mare: non so stare da solo. Lo sono stato per troppo tempo».
In famiglia, comunicate sempre via chat?
«Sì, spesso, io con il telefono non ho un buon rapporto. Devo averlo ereditato dalla mia famiglia. Quando mi chiama mia nonna, mi fa aspettare mezz’ora alla cornetta: invece di salutarmi, continua a parlare con mia zia. Ai messaggi ogni tanto rispondo, ma spesso con tre giorni di ritardo».
Per sua nonna, lei è ancora “il nipote che lava i piatti”?
«Vengo da una famiglia matriarcale: mio nonno è mancato molto giovane e la nonna ha tenuto in mano le redini di tutto. Le donne sono sempre state le più forti, quelle che prendono decisioni, mentre gli uomini aiutano. Le mie cugine stanno a tavola, io sparecchio e pulisco i piatti. Ma non mi dà fastidio».
Torniamo alla musica: il video di Sai che l’avete girato negli Stati Uniti, attraversando cinque Stati, 4.000 chilometri in camper. Com’è stata questa esperienza?
«Incredibile. Mi sono trovato in mezzo a un deserto di sale, completamente solo, lontano da tutto, con un drone che mi filmava. Ho pensato tanto, urlato nel silenzio. Se la vacanza è staccare, scoprire luoghi nuovi, quel viaggio lo è stato, anche se stavo lavorando».
“Eravamo felici con poco”, dice il testo. Le capita spesso?
«Non proprio, perché io pretendo tantissimo da me stesso e dagli altri, non mi basta mai poco. Per me la felicità è vivere un’emozione fino in fondo, torturandosi nel sentimento».
Nei suoi testi spesso parla della perdita di un amore. Perché?
«Innamorarsi è bellissimo, ma la parte più interessante di un rapporto è quando finisce: c’è l’angoscia, ma anche l’inizio di un nuovo te, una rinascita. Perché, dopo il naufragio di un amore, sei più consapevole, hai imparato molto di te».
Mi tolga una curiosità: lei sul dito medio ha un tatuaggio a forma di croce. Che significato ha?
«Appartiene a un momento. Magari un giorno ci prendiamo un tè e glielo racconto, ma non ne parlo in un’intervista».
La vita privata di Marco Mengoni sarà sempre inaccessibile?
«Se mi chiede perché in una canzone parlo di una mia sofferenza, le rispondo perché riguarda il mio essere musicista. Non m’inoltro, però, nelle mie vicissitudini personali. Sono un ragazzo che crede negli esseri umani, ma so che alcuni non hanno abbastanza sensibilità per capire. La vita privata ce l’ho, ma fa parte di me».
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