Cos'è successo con Zara e perché dovremmo imparare a non credere a tutto quello che leggiamo (sui social)
Succede che un giorno apri i social e atterri su un post che paragona l'ultima campagna di uno dei colossi del fast fashion più grandi al mondo alle immagini tragiche che giungono quotidianamente dal fronte palestinese. Succede che questo profilo, uno dei più noti non tanto per il saper informare in modo chiaro e super partes (forse, almeno agli inizi, è stato così) ma più che altro per il voler creare polemiche e sensazionalismi attorno e all'interno del fashion system, monta la solita polemica di turno, l'acchiappa commenti a più non posso per creare l'ennesima discussione di cui non sentivamo il bisogno.
Apriti cielo: da Instagram a Tiktok rimbalza "lo scempio" compiuto dal colosso spagnolo, Zara. Un'accusa che porta le persone ad assaltare e vandalizzare i negozi così, sull'onda di un qualcosa che pensano di sapere, di qualcosa al quale hanno scelto di credere senza porsi prima delle semplici domande. Può Zara aver creato, davvero, una campagna riproducendo volontariamente le atroci immagini di corpi senza vita avvolti nei propri sudari? Possono aver avuto la malizia di inserire un prop che riprende la forma geografica dell'antica Palestina accanto alla top Kristen McMenamy tutta in ghingheri davanti all'obiettivo di Tim Walker? Fermarsi un secondo a ragionare sulle cose, prassi che nell'era odierna sembra del tutto sopravvalutata e accantonata, può aiutare a far luce su molti punti.
Lungi da noi giustificare, decolpevolizzare senza sapere la verità, e dimenticare che già in passato vi erano stati slanci creativi fraintendibili, ma chiunque abbia mai lavorato in un'azienda che produce o vende moda, sottoforma di sviluppo di una collezione, vendita o di un semplice editoriale, sa che tutto richiede tempo. Lo sviluppo del concept, la scelta dei modelli, l'ambientazione, la disponibilità di fotografo/truccatore e di tutto lo staff implicato in quella che poi può risultatare una semplice foto avviene con un enorme anticipo rispetto alla stagionalità dei capi, all'arrivo nei negozi e alla pubblicazione lato media. Che può, tristemente, coincidere con momenti storici del tutto sbagliati.
C'è chi si stupisce che Zara abbia scelto comunque di pubblicarla ma si sa, le grandi aziende sono fatte di budget e risultati da raggiungere, di tante teste (troppe che, spoiler, non la pensano quasi mai nello stesso modo) e di idee non sempre vincenti - e guai a suggerire il contrario a un direttore creativo convinto delle proprie posizioni, che magari pecca pure di una certa ottusità. A distanza di non molte ore dallo scatenarsi della polemica il brand ha ritirato le immagini ed emesso un comunicato di scuse, con allegata spiegazione del concept, nonostante fosse del tutto comprensibile ma si sa, in queste occasioni non resta che cospargersi il capo di cenere anche quando non ce ne sarebbe bisogno pur di calmare la shitstorm.
Quello che possiamo portare a casa da questa vicenda, oltre al fatto che dovremmo più seriamente decidere o meno da chi comprare cosa, è che dovremmo contare fino a dieci prima di credere a quello che leggiamo, prima di farci trasportare dal like e dal commento indignato che sono sempre troppo facili ma del tutto inutili e che tendiamo a regalare a finti esperti che producono più danni che benefici.
Porci delle piccole e semplici domande del tipo "l'avranno fatto davvero di proposito? Ha senso? Cosa ci guadagnano a farsi sfasciare o imbrattare le vetrine?" e scegliere se un certo modo di fare ci rappresenta (e se vogliamo finanziarlo) è molto più utile che puntare il dito o inneggiare al complottismo.
Per il resto si sa che spesso, esistono storie che non esistono e continuerà a essere così se non impareremo a cosa dare possiamo davvero peso e di chi vale la pena fidarsi.
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