Bella Freud e l'importanza delle parole su Fashion Neurosis


Era il 2017, la London Fashion Week rappresentava ancora il "place to be" per scoprire nuovi designer e la Somerset House il punto di incontro di tutti i fashionisti e le fashioniste che volevano farsi fotografare dagli streetstyler. Era l'epoca delle vere it-girls, le socialite inglesi e americane che riempivano i front row delle sfilate e che ad un certo punto indossavano tutte un maglione con una scritta grafica e dal significato misterioso: 1970.
Una data che in realtà non significa nulla, almeno nelle intenzioni della sua creatrice, la designer Bella Freud che, un giorno giocando con la sua fotocopiatrice, ha ingrandito una piccola scritta trasformandola nell'iconico logo, ma che con il suo potere grafico e evocativo è riuscita a trasformare un semplice maglione in un must-have.

Il celebre maglione 1970 disegnato da Bella Freud riproposto nella collezione SS25 - foto Charlotte Hadden
Non è un caso che per la designer inglese, nipote di Sigmund Freud (e figlia del pittore Lucian), le parole, le scritte e il linguaggio stesso abbiano un significato così forte e portino con loro messaggi che neanche riusciamo a comprendere inizialmente, ma che vengono svelati con il tempo tramite la connessione con le persone.
È con questo istinto verso la comunicazione che Freud decide di lanciare il suo podcast, Fashion Neurosis, dove invita i suoi ospiti a stendersi in un divano e iniziare a parlare di vestiti e ricordi in un setting e mood che rimanda a quello di una seduta dallo psicologo.
Un'idea apparentemente semplice che ha conquistato un pubblico vastissimo, sia grazie ai nomi degli intervistati (tra cui spiccano l'attrice Cate Blanchett, ma anche il designer Rick Owens e il nostro Stefano Pilati) che all'atmosfera intima che si crea e che porta chi ascolta a sentirsi parte della conversazione.

Bella Freud assieme al desiger Jonathan Anderson - Foto courtesy of Fashion Neurosis
Su Grazia siamo grandi fan del tuo podcast che sta avendo un successo internazionale. Ti aspettavi una reazione del genere? E perché pensi che le persone lo amino così tanto?
Quando ho avuto l'idea, avevo questa forte sensazione che alle persone sarebbe piaciuto parlare di sé stesse attraverso il tramite dei vestiti. Parlare di vestiti fa emergere ricordi, battute, momenti significativi che aprono la porta ad altre conversazioni, mentre mettere se stessi al centro a volte può essere imbarazzante.
Molti mi dicevano: «Nessuno capirà di cosa stai parlando, è un concetto troppo strano». Ma io sentivo che le persone avrebbero capito. Credo che, se parli con rispetto e in modo autentico, la gente lo apprezzi e lo percepisca. Quindi per rispondere alla tua domanda, no, non me lo immaginavo questo successo, ma è andata proprio come speravo.
Le persone ti lasciano tanti commenti?
Sì. Ed è davvero interessante per me vedere come reagiscano al podcast. È difficile da spiegare, ma credo che istintivamente sento che quello che penso, lo pensino anche gli altri e che riescano a ritrovarsi nelle conversazioni del podcast. In questo modo si crea un rapporto, una connessione con il pubblico.
Si sente molto questo legame tra te, i tuoi ospiti e i vestiti di cui parlate. Come scegli gli ospiti? Hai una lista o scegli sul momento?
Entrambe le cose. Ho una lista che ho creato sin dall’inizio, con persone con cui sogno di avere una conversazione. Alcune le conosco, altre no. Ma so che con loro la conversazione potrebbe prendere una direzione interessante.
E poi ci sono momenti in cui mi viene in mente qualcuno e penso: «Oh, sarebbe perfetto!». Quindi è una combinazione tra programmazione e spontaneità.

Kate Moss durante la registrazione della puntata di Fashion Neurosis - Foto courtesy of Fashion Neurosis
Parliamo della produzione di una puntata. Come si svolge una giornata di registrazione?
All'inizio, quando stavo cercando di capire come potesse essere Fashion Neurosis, pensavo più al formato video che al podcast. Circa tre anni fa volevo fare un talk show ispirato a quelli degli anni ’70 e ’80, che avevano un’atmosfera glamour, erano meno sceneggiati e più spontanei.
Ho studiato anche i video di Allen Ginsberg e dei poeti beat negli anni ‘60, perché, nonostante la loro fosse una performance, si percepiva una forte intimità. Inoltre, sapevo che se l’illuminazione non fosse stata ottima, non sarei riuscita a convincere personaggi come Rick Owens, o nessuno del mondo della moda e dello spettacolo, a partecipare.
Così, con il mio cameraman, abbiamo lavorato per ottenere una luce perfetta. Ho anche chiesto consigli al regista Andrew Dominik, che è un esperto nel campo. Per me era essenziale che gli ospiti apparissero al meglio, sia esteticamente che nella conversazione.
E si vede! I tuoi video sono bellissimi. Quando un ospite arriva, si sdraia sul divano e iniziate a parlare? Quanto dura una registrazione?
A volte iniziamo con una tazza di tè, altre volte partiamo subito. Io preparo sempre delle domande, ma se la conversazione prende una piega interessante, la seguo. Mi aiuto con una scaletta perché mi emoziono molto e mi agito facilmente.
Di solito cerco di registrare per il tempo previsto, anche se all’inizio andavo troppo oltre. Poi ho imparato a essere più disciplinata. Alcune persone parlano tanto, quindi la puntata diventa più lunga, altre meno e allora intervengo di più io. Ogni episodio prende la sua forma in modo naturale.
Hai una puntata preferita?
Ho fatto solo 18 episodi finora, e ognuno è speciale. I primi con Rick Owens e Zadie Smith sono stati molto significativi, perché hanno dato il tono al podcast.
Qual è la cosa più difficile per te?
La preparazione è la parte più stressante, voglio che tutto sia interessante, ben fatto e voglio che gli ospiti abbiano una bella esperienza. Come dicevo mi emoziono tantissimo prima di registrare, sono nervosa, ma è un buon segno: vuol dire che ci tengo, che sono viva. Una volta che iniziamo va tutto bene.
Sono una grande fan di Nick Cave, quindi devo chiederti della puntata di cui è protagonista. Hai qualche aneddoto sul suo episodio?
Conosco Nick da più di 30 anni, siamo amici di famiglia. Ma nel podcast abbiamo avuto una conversazione come mai prima. È stato un momento molto speciale e sincero, senza paletti o sovrastrutture.
Io creo i suoi abiti e mi sento come se mi stessi prendendo cura di lui in questo senso. Il fatto che lui mi abbia scelto per occuparmene è un grande onore. Però confesso che durante il podcast avevo voglia di chiedergli anche cose più leggere, come l'enneagramma (la classificazione delle nove personalità dette enneatipi - ndr) della sua personalità!
E Susie (Cave, designer e moglie di Nick Cave - ndr)? Sarà un'ospite anche lei prima o poi?
Sarebbe meraviglioso. Se solo riuscissi a convincerla, è una persona molto riservata.

Kate Moss durante lo show di Bella Freud nel 1993 e nel 1994 - Getty Images
L'episodio con Kate Moss è stato anche molto apprezzato, sia da chi fa parte del mondo della moda che non.
Kate è stata fondamentale per Fashion Neurosis. Quando stavo ancora sperimentando il format, le ho mostrato un video e lei, che odia essere filmata, mi ha detto: «Devo farlo». Io non avrei mai avuto il coraggio di chiederglielo. Per me è stato un segnale incredibile, mi ha dato grande fiducia. Così abbiamo girato un primo episodio con lei di prova, non avevo ancora tutto il setting che ho ora, ma era già bellissimo e poi è tornata a registrare l'episodio definitivo.
Kate, è una persona di un'intelligenza sopraffina. Riesce a captare cose prima degli altri, è estremamente sensibile ed è curiosa. Nota tutto, soprattutto le persone. Quando parla del lavoro di modella e di come il corpo sia un mezzo per trasferire al mondo le idee degli altri è un momento di grande profondità, espresso perfettamente. Sono stata felice di mostrare la sua parte interiore più nascosta che va di pari passo con il suo aspetto esteriore, il suo stile e il suo portamento.
È stato un momento importante perché in un certo senso ha chiuso un cerchio. Kate ha sfilato per me negli anni 90, all'epoca quando la sua agenzia mi ha chiamata per annunciarmi che era libera e avrebbe lavorato per me non riuscivo a crederci. Poter continuare a collaborare con lei anche su Fashion Neurosis è stato fantastico.
Hai vissuto a Roma per due anni e parli italiano. Stefano Pilati è già stato tuo ospite, ma ti piacerebbe avere un altro protagonista italiano?
Ho già qualcuno in mente, ma non voglio svelarlo! Amo il design e la creatività italiana, ho lavorato con modellisti e artigiani straordinari quando ero in Italia, mi hanno mostrato quante cose fosse possibile fare, mentre a Londra all'epoca a livello di produzione erano tutti più rigidi. È stato un privilegio imparare da loro.

La collezione SS25 di Bella Freud - Foto di Charlotte Hadden
I tuoi maglioni e le tue T-shirt hanno spesso parole e frasi stampate o ricamate. Perché pensi che sia importante?
Le parole possono trasmettere enormi emozioni in poche lettere. Da ragazzi, incidevamo testi e titoli di canzoni sui banchi di scuola perché ognuna di quelle frasi portava con sé un significato più ampio, tanti messaggi diversi. Io nel mio avevo inciso "Get Up, Stand Up", la canzone di Bob Marley e mi ero sentita così rivoluzionaria. Il linguaggio è lo strumento più potente che abbiamo. Dicono che l'amore sia la cosa più importante nel mondo, ma senza parole per esprimerlo è come se non ci fosse. Credo molto nell'idea di linguaggio come mezzo per unire le persone piuttosto che dividerle.
Mi interessa il modo in cui una parola può cambiare tutto, e come indossarla senza risultare moralisti.
Sei una star dei Podcast, su Instagram e TikTok. Quale piattaforma preferisci?
In realtà credo sia importante disconnettersi, leggere un libro, coltivare la propria interiorità. I social come Instagram sono utili, ma non voglio diventarne dipendente. Leggo i commenti, ma cerco di non farne un’ossessione. Anche perché se non mi occupo della mia parte offline poi rischio di non avere nulla di cui parlare.
Il tuo podcast è più lungo rispetto ai contenuti mordi e fuggi dei social. Forse è proprio questo il suo punto di forza.
Esatto, voglio creare conversazioni profonde, non solo contenuti veloci da scorrere.
Parliamo di moda. Il settore è in difficoltà: continui cambi di direttori creativi, prezzi in aumento… Quali sono stati i momenti migliori e peggiori della tua carriera da designer?
La moda è sempre stata complicata, ma ora è un momento di grande incertezza. Non è più chiaro quali siano gli obiettivi di un brand, soprattutto quelli dei grandi colossi. Io ho un marchio piccolo e questo mi permette di essere agile, senza infrastrutture e di gestire tutto senza troppe pressioni. Cerco di occuparmi solo delle cose che sono brava a fare.
Parlare e confrontarsi con gli altri designer su Fashion Neurosis è molto bello. Sento che c'è molta empatia, anche se ora si fa un gran parlare di gossip e scoop, penso che si stia creando una rete di sostegno.
La cosa più bella di questo lavoro per me è ancora incontrare qualcuno per strada che indossa i miei vestiti, senza che io l’abbia influenzato. È una sensazione incredibile. Anche vestire attori, cantanti, persone famose che scelgono un mio capo pur avendo tutte le possibilità del mondo, mi sorprende sempre, ma c'è qualcosa di speciale negli sconosciuti che hanno deciso di investire e spendere dei soldi in una tua creazione.
Ammiri qualche designer in particolare al momento?
Amo tutto quello che fa Pieter Muliers, il designer di Alaïa, Stefano Pilati è un uomo e un artista meraviglioso, le sue creazioni mi tolgono il fiato, Phoebe Philo, Haider Ackermann, Alessandro Michele. E adoro le scarpe di Christian Louboutin.
Hai un sogno per il futuro? Qualcosa che vorresti fare?
Devo dire che questo preciso momento della mia vita è davvero uno dei più felici perché sto facendo tante cose che trovo estremamente liberatorie anche se sono complesse. Occuparmene mi porta ad avere idee su nuovi progetti come scrivere, o girare cortometraggi, ma che hanno sempre a che fare con la moda . Quindi non ho una risposta precisa su quello che farò, ma sento che quello che sto facendo ora mi spingerà verso la prossima avventura.
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