Volevo molto bene alla zia di mio padre, Amalia. Per me era la nonna paterna che non avevo mai conosciuto. Negli ultimi anni della sua vita era immobilizzata a causa della malattia, e l’unica socialità delle sue giornate erano le visite del mio babbo.

Volevo molto bene alla zia di mio padre, Amalia.
Per me era la nonna paterna che non avevo mai conosciuto. Negli ultimi anni della sua vita era immobilizzata a causa della malattia, e l’unica socialità delle sue giornate erano le visite del mio babbo.
Io ero già venuta ad abitare a Milano, tornavo a casa poche volte l’anno e andavo sempre a trovarla, ma era troppo poco. I miei genitori mi raccomandavano: «Telefonale, la farai felice». Ma allora ero giovane, presa da me e non la chiamavo mai. Quando se n’è andata, di morte naturale, ho pianto disperatamente pensando a tutte le parole che non le avevo detto.
La scomparsa di Carlo Lizzani, che si è tolto la vita gettandosi dal terzo piano, ha riaperto il dibattito sull’eutanasia.
Il figlio Francesco ha raccontato che il padre «non era malato, ma lo esasperava sentire il suo corpo senza più forze, mentre il cervello funzionava benissimo».
Metà degli anziani italiani soffre di ciò che è definita “demotivazione alla vita”. Un terzo dei morti suicidi ha più di 65 anni. A parte i casi più gravi di malattie terminali e accanimento terapeutico, credo che, prima di aiutarli a morire, bisognerebbe aiutarli a vivere.
Perché quello che spesso li spinge a staccare la chiave è sentirsi un peso: «Sono anziano, non sto bene, sono inutile alla società e do fastidio alla mia famiglia».
Vogliamo aiutarli tutti a morire oppure farli sentire così preziosi da sperare di poter vivere ancora?
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