«Ti uccido perché non ti sacrifichi per me»: l'editoriale di Silvia Grilli
Al funerale di Michelle Causo, 17 anni, nessuno ha pronunciato la parola "femminicidio": come se quella morte non lo fosse, o lo fosse meno di altre. Eppure non c’è altro termine da usare davanti a quel volto di bambina, sfregiato con la lama di un coltello a serramanico. Mi sconvolge il tentativo di dare sempre una spiegazione a questi crimini, mentre altro non sono che delitti sulla proprietà: donne considerate roba loro dagli assassini.
«Ha ucciso Michelle per 1.500 euro». «Ha ucciso Giuseppina Caliandro perché avevano litigato». «Ha ucciso Chiara Gualzetti perché aveva un demone dentro». «Potrebbe avere ucciso Andreea Rabciuc perché stava in chat sul telefonino». «Ha ucciso Giulia Tramontano perché era stressato». «Ha ucciso Melania Rea in un impeto d’ira, perché era inghiottito in un imbuto, lacerato fra la moglie e l’amante». «Ha ucciso Ilenia Bonanno perché era depresso». C’è sempre la ricerca affannosa di un movente, quando un uomo sopprime una donna. C’è sempre un'indagine che presuppone che i fatti non siano chiari, che probabilmente ci siano dei complici, che il killer nasconda qualcosa...
Ma il killer non nasconde mai niente: è così evidente perché abbia assassinato la fidanzata, la moglie, l’ex compagna, l’amica. Noi femmine lo sappiamo: l’ha uccisa perché è una donna, cioè un essere su cui crede di avere diritto di vita e di morte.
È molto rassicurante indagare, considerare quel delitto una follia, il gesto di un mostro, sostenere che chi lo compie è un pazzo, perché così il problema si circoscrive. Ma la verità è un’altra: il femminicidio è un sistema di annullamento del femminile radicato nella nostra società. Considerarlo solo l’esplosione di violenza esacerbata da parte di un’esigua minoranza di maschi, nei quali la maggioranza degli uomini non s’identifica, è vedere solo la punta dell’iceberg.
Il corpo devastato di Michelle e di tutte le altre vittime racconta il controllo a cui tutte le donne, chi più chi meno, vengono sottoposte. Un femminicidio non è un episodio di cronaca nera: nel mondo è la violazione più diffusa dei diritti umani.
In Italia ogni tre giorni una donna viene uccisa. Il motivo scatenante è sempre il rifiuto da parte di lei. Abbiamo raggiunto posti di rilievo nella società, conquistato professioni storicamente maschili, espresso la libertà di decidere del nostro corpo e di noi stesse. Ma gli uomini non riescono ancora ad accettarlo. E alcuni, certamente i più deboli, di fronte al nostro rifiuto di sottometterci uccidono per placare frustrazioni di potere. Come le loro madri, anche le loro compagne dovrebbero servirli devotamente, non fare di testa propria.
Stiamo rischiando di abituarci alla strage. E invece dovremmo continuare a lottare per cambiare la testa delle persone. Affinché la reazione non sia più: «Poverina, un’altra vittima di uno psicopatico...». No, per frenare la strage bisognerebbe risolvere diseguaglianze radicate. Il 48,9 per cento delle donne italiane non ha un impiego fuori casa. Oltre una su tre non ha un conto corrente proprio. Il 60 per cento di chi denuncia violenze domestiche non è economicamente indipendente. Nelle famiglie, il 67 per cento del lavoro di cura e assistenza pesa esclusivamente su di noi. Questi sono i veri moventi che spingono un femminicida a ritenere che sia giusto punire la donna che, invece di sacrificarsi per lui, agisce di testa propria.
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