«Storie di eroi, e le eroine?»: l'editoriale di Silvia Grilli

Viaggiamo per il mondo e, quando le strade che percorriamo sono dedicate a qualcuno, portano tutte nomi di uomini: patrioti, scienziati, letterati, artisti. Studiamo a scuola una storia raccontata da maschi con imperatori, re, papi, condottieri, presidenti, dittatori, inventori.
Messalina viene dipinta come una dissoluta, Cleopatra è descritta come una seduttrice. Per il resto quasi non esistiamo. Soffro quando vedo mia figlia imparare da quei libri di testo.
Nei film i geni sono tutti i maschi: il Maestro candidato a quattro Oscar è il direttore d’orchestra Leonard Bernstein, sua moglie Felicia Montealegre è solo un’attrice che nasconde il suo talento.
In Oppenheimer, che si è aggiudicato sette premi del più alto riconoscimento britannico Bafta, cinque Golden Globes e 13 nomination agli Oscar, il “padre della bomba atomica” è il tormentato fisico J. Robert Oppenheimer.
Il cast è affollato di personaggi maschili che cambiano la storia. Le donne sono due. Una è la moglie di Opennheimer, Kitty, non dotata di cognome proprio, di cui si racconta la dipendenza da alcol, ma si trascura che fosse anche lei una scienziata che aveva lavorato al progetto per l’atomica. L’altra è l’amante, quasi sempre depressa o impegnata a fare sesso con lui in ogni scena, tralasciando il suo curriculum di brillante accademica.
Quando mi lamento della pochezza dei personaggi femminili di Oppenheimer, mi rispondono male: «Sempre lo stesso pistolotto. Sempre la questione femminile. Ma erano gli Anni 40 e le donne nella vita pubblica non esistevano. Il film è semplicemente storicamente accurato».
Peccato che fossero donne centinaia delle scienziate che lavorarono all’atomica: fisiche, chimiche, ingegnere, matematiche che misero a disposizione le loro conoscenze e s’interrogarono come Oppenheimer sulla responsabilità morale di quelle ricerche. Ne avete traccia nel film? No, si raccontano le donne come casalinghe disperate o creature con le tette.
Mi sarebbe piaciuto vedere in un’opera di tre ore anche qualche secondo in cui a Kitty venisse attribuito un cognome mentre svolgeva il suo lavoro da biologa. Sarebbe stato troppo chiedere qualche tentativo di capire la sua depressione e la sua crudeltà per aver rinunciato a se stessa? E sarebbe stata un’eccessiva pretesa vedere la vita dell’amante Jean Tatlock oltre Oppenheimer? Abbiamo tutte un’esistenza al di fuori degli uomini che frequentiamo.
Perciò sì, perdonatemi, ma continuerò a essere un martello pneumatico, cercando per il poco che posso di frantumare le pareti di storie fittizie. Ho sperato che la narrazione cambiasse, invece è sempre la solita.
Perciò non portatemi l’alibi dell’accuratezza storica. Chi racconta la storia? Chi sceglie chi è degno di esserne protagonista? Chi decide che cosa conta e che cosa no? Si ricorda qualcuno della fisica e matematica Mileva Marić, la prima moglie di Albert Einstein, che contribuì al lavoro del genio? Non mi pare. Gli uomini si citano a vicenda per conservare il potere e tramandare le proprie memorabili gesta anche a mia figlia e alle vostre.
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