«Se i giudici non capiscono la violenza contro le donne»: l’editoriale di Silvia Grilli sul nuovo numero di Grazia

Ana Maria Lacramioara Di Piazza aveva 30 anni ed era al quarto mese di gravidanza. È stata uccisa in Sicilia con 10 coltellate dall’amante Antonino Borgia, che l’ha colpita al grembo perché non voleva quella nascita.
«Mi farebbe perdere la reputazione», diceva l’assassino, sposato e padre di due figli. Era stato condannato all’ergastolo, ma in questi giorni la sentenza di appello ha ridotto la pena a 19 anni di carcere. Secondo la corte di secondo grado, infatti, il suo non è stato un gesto premeditato, non era dettato da motivi spregevoli o banali, non è legato a crudeltà: è semplicemente un raptus. Così la pena è stata scontata di un terzo con il processo in rito abbreviato per accelerare i tempi e l’uomo è stato anche assolto dall’accusa di porto di coltello: la corte ha creduto che avesse trovato l’arma casualmente sul luogo del delitto.
Non capire che cosa sia la violenza contro le donne è grave ed è un’eredità di pensiero che parte dal delitto d’onore, abrogato dal codice, ma resistente nella mentalità italiana. I giudici che hanno sentenziato “l’impeto” d’ira credevano che l’uomo si sentisse minacciato da una relazione extraconiugale e per questo abbia perso la testa. L’omicida viene in qualche modo considerato vittima di una mantide manipolatrice, che voleva incastrarlo. Non si comprende che l’assassino faccia parte di una cultura che non riconosce alle donne la libertà di decidere. E, aggiungo, come si fa a non considerare spietato un uomo che picchia una donna su un furgone, la insegue quando scappa, la riconduce a bordo in un’escalation di violenza brutale, la uccide, poi getta il corpo lungo la strada, va dal barbiere, poi al commissariato per risolvere una questione burocratica?
Le sentenze che derubricano i femminicidi a raptus non capiscono che sono in realtà il culmine di crudeltà e sopraffazioni quotidiane. C’è un problema di comprensione di un virus, quello della violenza contro le donne, più grave del Covid perché non si è trovato il vaccino per fermarlo.
Aggiungo infine il caso di Martina Rossi. Aveva 20 anni, nel 2011, quando morì a Palma di Maiorca precipitando dal sesto piano di un hotel. Stava fuggendo da un tentativo di stupro. La sua morte fu archiviata in Spagna come suicidio. Dopo sei processi, in Italia sono stati condannati Alessandro Albertoni e Luca Vanneschi a tre anni di carcere per tentata violenza sessuale di gruppo. Contemporaneamente i loro reati di omissione di soccorso e di morte come conseguenza di altro delitto sono stati estinti, perché erano scaduti i tempi previsti dalla legge. Ai due, che non si sono mai pentiti, mai hanno chiesto scusa e mai hanno offerto un risarcimento, è stata concessa la semilibertà subito dopo l’arrivo in carcere. Il giorno svolgeranno un lavoro, potranno passare da casa e rientreranno in prigione la sera.
La funzione dei verdetti non è certamente far marcire i colpevoli in cella buttando via la chiave, ma punire e rieducare. Conosciamo le devastanti condizioni di vita nelle carceri sovraffollate che stanno scoppiando, ma i genitori di Martina, che hanno impiegato 11 anni per avere giustizia, che cosa possono provare e come possiamo sentirci noi mentre osserviamo come vengono trattati i delitti contro le donne?
© Riproduzione riservata