Serena Rossi: «Venezia, ti porto la forza di Napoli»
Un abito di scena Anni 60, che indossa durante una pausa sul set de La sposa, la nuova serie di Rai Uno: un vestito blu chiaro, con scollo rotondo e grandi bottoni, una fascia a fiori gialla e blu tra i capelli castani. E quando Zoom fa partire l’intervista, Serena Rossi nei panni di Maria, ragazza del Sud costretta a sposarsi per procura, è in camerino e sta mangiando delle albicocche.
Fra qualche giorno, come Cenerentola, cambierà pelle e s’infilerà in splendidi abiti da sera. Il ruolo è il più ambito per un’attrice italiana: quello di madrina della Mostra del cinema di Venezia. È lei che, in un abito da sera Giorgio Armani, il primo settembre conduce la cerimonia d’inaugurazione, sul palco della Sala Grande del Palazzo del Cinema, al Lido.
E sarà ancora lei a guidare quella di chiusura sabato 11 settembre, quando saranno annunciati i Leoni d’oro. Il festival che segna l’anno della grande ripartenza del cinema italiano ha scelto una madrina per cui il 2021 è stato l’anno di un tris d’eccezione: in televisione come conduttrice della prima serata più seguita della primavera, Canzone segreta, e come protagonista della serie record d’ascolti Mina Settembre. E al cinema con uno dei film più attesi, Diabolik dei Manetti Bros.
Parliamo subito della sua prima volta da madrina. Come ha saputo che sarebbe stata madrina a Venezia?
«In un modo buffo. Era una domenica mattina, lo scorso aprile. Io e il mio compagno avevamo appena finito di coccolare il nostro Diego, che ha 5 anni. Ho dato un occhio alle email e ne ho vista una di Alberto Barbera, il direttore della Mostra del cinema: mi chiedeva se volevo esserne la madrina. Ho sgranato gli occhi: non mi ero proposta per questo ruolo, avevo tanti impegni per la fine dell’estate. Ho pensato fosse lo scherzo di qualcuno, infatti chiamavo al numero di cellulare indicato nella email e non rispondeva nessuno. Ecco la conferma, è proprio una burla. Invece era un numero errato. E poi sono riuscita a sentire Barbera. Dopo lo stupore, è arrivata la gioia. Ero, e sono, contentissima e orgogliosa di avere un ruolo istituzionale per il cinema del mio Paese che riparte alla grande, dopo un periodo così difficile. E questo ruolo, poi, mi è arrivato come una bella sorpresa: quindi vale di più».
Al Festival di Venezia c’è stata anche in concorso.
«Nel 2017 ero al festival con Ammore e malavita, commedia musicale dei Manetti Bros, ambientata a Napoli, in cui ero Fatima, infermiera che s’innamora di un killer che la vuole uccidere perché ha visto troppe cose. Avevo girato con il pancione, incinta di Diego, e a Venezia sono arrivata con lui neonato. Il film era originale, poteva non piacere o addirittura entusiasmare. È successa la seconda cosa. Che emozione. Ho ancora nel cellulare la foto del red carpet: avevo un abito lungo, rosso. Ricordo che, mentre mi preparavo, Diego ci gattonava sopra. Il film ebbe successo e l’anno dopo mi fece vincere un David di Donatello, un Nastro d’argento e un Ciak d’Oro».
In questa edizione del festival chi desidera conoscere?
«Il regista Pedro AlmodÓvar. È tanto che lo voglio incontrare. E poi non vedo l’ora di parlare con Penélope Cruz, una delle mie due attrici preferite».
Ora ci deve dire chi è l’altra.
«Kate Winslet, per il suo aplomb inglese: è diversissima da Cruz, di cui mi affascina la passionalità mediterranea, che la rende così vicina a me, che sono napoletana».
A proposito di Napoli: com’è stato crescere a Miano, quartiere che confina con Scampia e Secondigliano?
«Miano, quando ci arrivò mio nonno Emilio, emigrando da Montefalcone nel Sannio, in Molise, finita la guerra, era quasi una zona di campagna. Lui ci comprò una cava e diventò un piccolo costruttore. Anni dopo si trasformò in un quartiere difficile, infatti i miei genitori scelsero per me una scuola più centrale. Ma per il catechismo frequentavo la parrocchia vicino a casa. E lì incontravo ragazzini con un temperamento focoso, un po’ prepotente. Quando mi prendevano in giro non mi difendevo mai, subivo, restavo male e tornavo a casa. Avevo un’indole troppo buona, dicevano le maestre ai miei genitori. Napoli, città che ha subito tante dominazioni straniere, e dunque abituata a sopportare, ti insegna a sviluppare doti di pazienza. Se sono così, se alla fine supero le difficoltà che trovo sul mio cammino, è perché sono cresciuta lì: certi posti ti obbligano a tirare fuori il meglio di te. E io la mia napoletanità non la riversavo nelle relazioni personali, ma in altri ambiti: la musica e lo spettacolo, le due passioni di famiglia».
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Foto di Simone Falcetta - Styling di Susanna Ausoni
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