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«Sei brutta»: l’editoriale di Silvia Grilli

«Sei brutta»: l'editoriale di Silvia Grilli

foto di Silvia Grilli Silvia Grilli — 26 Gennaio 2023
Il nuovo numero di Grazia è ora in edicola e su app. Ecco l'editoriale della Direttrice Silvia Grilli
Editoriale grazia 23

La prima volta è stata alle scuole medie. Una compagna di classe mi urlò: «Sei brutta!». La seconda lo disse, ridendo, un medico dell’ospedale dove lavorava mio padre: «Siete proprio bruttine tu e tua sorella». La terza volta deve essere stata quando un’amica, parlando di me con altre persone, mi presentò come «non bella, però un tipo». La quarta una collega, soppesandomi, se ne uscì così: «Sei della generazione di Sarah Jessica Parker, scheletrica e con la testa grande. In un’altra epoca ti avrebbero bruciata tra le streghe». Almeno aveva fantasia... Credo di ricordami quasi tutte le volte che mi hanno detto «sei brutta»: evidentemente piegata dalla definizione, ma mai spezzata.

Qualcuno continua anche adesso ogni tanto a sottolinearlo, quando posto le mie foto sui social. Ma ora mi scappa da ridere per la violenza senza pudore di chi lo firma con il suo nome e, sinceramente, non me ne importa nulla. Non mi interessa neppure se qualcuno poi commenta in mia difesa: «Ma non è vero, sei bella!». Invece apprezzo quando mi scrivono: «Sei forte» oppure «sei intelligente».

Se fossimo tutti d’accordo che l’aspetto esteriore sia solo uno dei modi di guardare un essere umano (e probabilmente uno dei peggiori) sentirsi dire che si è brutti non farebbe così male. Sarebbe come ammettere che non si è bravi in uno sport o non si sa ballare. Lo si riconoscerebbe serenamente senza considerarlo un’offesa.

Perciò capisco molto bene Jolanda Renga, figlia di Ambra Angiolini e del cantante Francesco Renga, che in televisione a Verissimo ha confidato che leggere «sei brutta» sui social le ha fatto molto male. «Ho pianto per un’ora, poi ho preso il treno e ancora piangevo, perché evidentemente è una ferita aperta. Così ho postato quel video».

Probabilmente avete visto il filmato di cui parlo e ve lo ricordate, perché era toccante. Lei diceva: «Sono io, Jolanda, la figlia brutta. “Sei brutta” è una cosa che mi dico sempre da quando sono piccola, quando mi guardo allo specchio o nelle foto. Il mio sogno, per fortuna, non è essere bella e neanche essere la sosia dei miei genitori. Io tengo molto di più alla mia anima che alla mia faccia e al mio aspetto, perché questo non resterà per sempre, invece il mio cuore e la mia anima saranno quelli per tutta la vita. Preferisco che siano loro a essere belli e puliti. Se la cosa peggiore che si dice di me è che sono “brutta” posso stare tranquilla, perché non si può dire che io sia cattiva oppure egoista o insensibile».

Amo Jolanda, la sua sensibilità, la sua dolcezza. Soprattutto la stimo quando chiarisce: «Il fatto che una persona mi conforti dicendo “non è vero, sei bella”, non mi rincuora così tanto». È questo il punto.

Affrettarsi a rassicurare che è attraente rafforza il preconcetto che una persona poco piacente valga meno. Anche le campagne d’inclusione, che comunicano la bellezza diversa sostenendo che siamo tutti avvenenti, continuano a fare dell’aspetto fisico un valore superiore agli altri. Nessuno ha mai fatto battaglie inclusive per chi non è brava in uno sport o non è capace di ballare.

Un mio conoscente disse una frase che trovai sconvolgente su sua figlia che stava per nascere: «Speriamo che sia bella, altrimenti le tocca lavorare sodo». La bellezza o la bruttezza sono fattori accidentali. L’idea che una donna poco seducente possa avere solo le ambizioni che può permettersi è crudele, ma ancora oggi dominante. Non vogliamo essere belle, vogliamo essere rispettate e vivere l’esistenza che intendiamo vivere, anche se non abbiamo vinto alla lotteria genetica.

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