Scrivere è la mia passione, è la mia vita, ma ciò che scrivo oggi, seppure sia il mio cuore a sentirne l’esigenza, mi pesa come mai avrei immaginato.
A luglio dello scorso anno, il mio amico Michele, che lavora per un ufficio stampa di Milano, mi chiede di postare una t-shirt per promuovere una fondazione per la ricerca sul tumore al seno. È in quella occasione che conosco Sara.
Mi lascia un commento sotto alla foto e mi fa notare, con grande gentilezza, che ci sono anche altre tipologie di tumore di cui spesso non si parla. Rispondo che ha ragione, ma intuisco che il suo commento è sentito, che non è stato lasciato per caso e decido di scriverle in privato: mi permetto di chiederle se è malata. Lei risponde di sì.
Lo ha scoperto poco meno di un anno fa.
Il Canazzu — lei lo chiama così — è alla testa del pancreas e non si può operare perché è incollato all'arteria mesenterica e tocca diversi vasi sanguigni.
Dopo diciotto sedute di chemio e trenta di radioterapia, ha perso sedici chili, ma non si perde d’animo.
Sara ha tre bambini, mi racconta che il più piccolo ha ancora il pannolino e che di recente, lei e suo marito si sono sposati dopo sedici anni di convivenza.
Durante la terapia, non solo ha organizzato il matrimonio da sé, ma è diventata istruttrice di macumba fitness e ha fatto lezione alla fiera di Udine e a quella di Rimini, davanti a mille persone.
Si definisce una che non molla, gli stessi medici non si spiegano come possa riuscire a fare tutto questo.
Scrive ancora, mi dice che ha cominciato a leggere i miei racconti quando faceva la chemio. Stava attaccata alla flebo per circa tre ore e le mie storie la facevano fantasticare. Anche se per poco, dimenticava di essere in ospedale. Mi ringrazia per la grande compagnia che le faccio tutt’ora. Mi saluta.
I mesi passano, siamo a novembre, le scrivo per chiedere come sta. I dottori hanno trovato quattro metastasi al fegato, che però sono ancora noduli e per evitare che si ingrandiscano, ha dovuto riprendere la chemio. Seppure la terapia gli procuri danni neurologici alle mani e alle gambe, Sara è felice: questa volta non ha perso i capelli.
Sta per partire per il suo viaggio di nozze, farà una crociera di dodici giorni e dice che se sarà in forma, la sua vitalità conquisterà la nave: prevede di diventare capo animazione dopo tre ore dalla partenza. Ride.
Anche lei mi chiede come sto, sono appena tornata da Tokyo, ha letto che sono raffreddata, mi raccomanda di stare al calduccio, di riprendermi velocemente. “Qui abbiamo bisogno delle tue storie!”
Mi parla ancora dei suoi bambini, si ritiene una mamma esigente, ma il suo desiderio più grande è vederli felici e sereni. Da quando si è ammalata, prega di poter vivere il più a lungo possibile: devono crescere con la mamma vicino.
“Credimi ci sono giorni che sbatterei la testa contro il muro dai dolori, le pastiglie non sempre fanno effetto, ma cerco di andare avanti per fare le cose di tutti i giorni, come una mamma qualunque per non destabilizzare i bambini e vederli sereni. Purtroppo so che non guarirò mai — il pancreas non è operabile, anche se sembra che la malattia si sia fermata — ma vorrei vivere ancora trent’anni, vorrei vedere i miei nipoti. Chiedo troppo? Penso che sia il sogno di ogni mamma vedere i figli sistemati con una vita tranquilla.”
Siamo a gennaio, le scrivo. Il tumore è fermo, dall’ultima tac risulta una sola metastasi al fegato, Sara è positiva, sa che piano piano tutto questo finirà e riprenderà la vita di una volta. Non si perde d’animo e per svagare la mente ha imparato il punto croce, si tiene impegnata in modo da non pensare. Deve crescere i suoi bambini e loro le danno la carica per andare avanti.
A maggio, le scrivo ancora.
“Questa chemio è molto più forte delle precedenti. Ho fatto la terza, sono a metà percorso. Mi fanno male le mani, le gambe si bloccano, ma cerco di camminare, così non si atrofizzano come è successo a Natale. Faccio fisioterapia tre volte alla settimana.”
Fa una pausa, poi riprende.
“Enrica sono tanto stanca, vado avanti perché voglio vivere, ma credimi, è pesante.”
Cerco di consolarla, la incito a combattere, a tenere duro e le dico del mio romanzo in uscita: so che le farà piacere. Mi dice che non vede l’ora di leggerlo, le piace tanto il mio modo di scrivere. “Se vieni a Sanremo o a Ventimiglia, vorrei la dedica sul libro, ci tengo molto.”
Le scrivo questo lunedì, le comunico ufficialmente la data di uscita. Sarò in casa editrice martedì, se il romanzo è già stato stampato, chiederò una copia: è bello che la prima sia per lei.
Mi chiede se andrò a trovarla domani, le confermo che andrò sabato.
La mattina, mi dice di non aver dormito dall’emozione, io sono emozionata quanto lei. Le domando l’indirizzo della struttura e gli orari di visita per potermi organizzare. Dice che basta fare silenzio ed essere educati e mi indica il nome dell’ospedale, il piano, il reparto, il numero della sua stanza.
“Ho quasi paura che non vieni, non ci credo ancora.”
“Se ti dico che vengo, vengo.”
La saluto dicendole che corro a scrivere la fine della puntata. Mi incita a sbrigarmi: è curiosa.
La pubblico sulla pagina e gliela invio.
“È bellissima, l’ho letta tutta d’un fiato.”
La sera di martedì, apro i messaggi su Messenger, uno è suo. Lo ha scritto la mattina, mi chiede se sabato può invitare anche Maria, la sua amica che mi legge il lunedì. Sorrido.
Ora sono io a scusarmi del ritardo con cui rispondo, aggiungo di essere contenta di conoscere Maria, lei non scrive nulla.
Mercoledì le mando la copertina in anteprima, aspetto un suo messaggio, ma non arriva.
Non so cosa fare, posso solo aspettare. Non perdo d’occhio l’icona sul telefono, nella speranza di veder spuntare una notifica. Nulla.
Venerdì, decido di fare un altro tentativo, chiamo Sara con Messenger. Il telefono squilla, nessuno risponde.
Nel pomeriggio, dopo aver pubblicato la copertina del libro sulla mia pagina, controllo i messaggi in privato.
In alto, ne leggo uno: le prime righe mi fanno piangere. È il dottore di Sara.
“Buongiorno. Sara mi aveva detto che domani sarebbe venuta a trovarla per portarle il suo libro, ne era felice, ma vorrei che mi chiamasse, le lascio il mio numero.”
Mi precipito sul portapenne, trovo una matita, lo scrivo su un foglio, chiamo.
Sara è in coma da ieri, le aveva parlato di me, del nostro incontro, mi chiede di non andare domani. Non posso oppormi. Devo rassegnarmi.
Lo prego di dare un bacio a Sara da parte mia, il dottore si offre di accontentare la mia richiesta. Mi richiama poco dopo per confermarmi di aver fatto ciò che gli avevo chiesto.
Oggi ho ricevuto la sua telefonata: Sara è mancata stanotte.
Ho scritto queste righe per il rispetto che provo per me stessa, mettendo in conto che qualcuno, ingiustamente, possa insinuare che lo stia facendo per trarne visibilità, ma come posso fingere che nulla sia successo e continuare a sorridere come se niente fosse?
Non posso farlo a me, non posso farlo a voi lettori, con cui dal primo istante, ho deciso di mostrarmi per ciò che sono.
Se Sara fosse ancora qui, mi inciterebbe a fare del mio meglio. Lo farò sempre.
Illustrazione di Carola Giacopini

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