«Un'italiana come Saman, uccisa dalla sua famiglia»: l'editoriale di Silvia Grilli
Hanno trovato il corpo di Saman Abbas quasi intatto, nonostante fosse stato lasciato per più di un anno e mezzo sotto i detriti di un casolare abbandonato in provincia di Reggio Emilia.
Era vestita come nell’ultima immagine, ripresa dalla telecamera di sicurezza dell’azienda agricola dove lavorava la sua famiglia, nella notte tra il 30 aprile e il primo maggio 2021. Indossava scarpe da ginnastica, leggings, felpa scura. Mentre l’accompagnava alla trappola mortale escogitata dai maschi di famiglia, la madre era coperta con il velo, simbolo di sudditanza al patriarcato: una vittima che cerca di sopravvivere sacrificando persino la figlia.
Sappiamo che Saman è stata assassinata dai suoi parenti uomini perché per loro era una vergogna. Aveva 18 anni, l’avevano tolta da scuola, costretta a un matrimonio combinato con un pachistano. Si era ribellata, ma non abbastanza. Si trovava in un limbo tra due mondi: il nostro con le sue prospettive, il suo con una falsa idea dell’onore maschile. Ci vuole una forza enorme per rifiutare la propria famiglia in un Paese straniero, lei aveva bisogno di fidarsi di loro. E l’hanno uccisa. Quante Saman ci sono in Italia?
Le vediamo nelle nostre città, sui nostri autobus e treni, ma come vivono nel chiuso delle loro case, lontane dai nostri sguardi? C’è sempre una storia dietro una ragazza che a 16 anni sparisce dalla scuola. «Non ha ancora le mestruazioni», mi ha detto qualche giorno fa una madre pachistana per giustificare la figlia che indossava leggings, sneakers e cappellino. Che cosa succederà a quella ragazzina quando crescerà? Riuscirà a disubbidire senza che le facciano male? Sono passati 16 anni dall’omicidio della ventenne Hina Saleem, assassinata in provincia di Brescia dal padre e duecognati perché si era rifiutata di sposare un pachistano musulmano. Anche lei, come Saman, aveva cercato di allontanarsi dalla sua famiglia. Li aveva denunciati per maltrattamenti, ma poi non se l’era sentita: aveva ritrattato. I parenti invece non hanno cambiato atti- tudine: l’hanno uccisa. Sono anche trascorsi quattro anni dall’assassinio della venticinquenne Sana Cheema, strangolata da padre, zio e fratello in Pakistan, dove era stata costretta a tornare. Gli uomini di casa dichiararono di averla ammazzata perché aveva «disonorato» la famiglia, poi ritrassero la confessione. Tutti questi anni e non è cambiato nulla: siamo qui a recuperare cadaveri e a chiederci come possa avvenire ancora il delitto d’onore in Italia, dopo aver impiegato tanto tempo per abrogarlo.
Eppure dal 2019 nel nostro Paese c’è una legge contro i matrimoni forzati che prevede il carcere fino a cinque anni e promette a chi denuncia il permesso di soggior- no per motivi umanitari. Però le ragazze non accusano la famiglia in un Paese straniero a cui non sentono di appartenere totalmente e in cui si portano dietro un senso di inferiorità. Questi delitti non uccidono solo le loro vittime, sono anche avvertimenti alle altre della comunità: che sia ben chiaro a chi appartengono. Saman, Hina, Sana sono state assassinate per dimostrare a tutte che non possono sognare. Devono continuare a vivere impaurite.
E invece bisognerebbe farle sentire italiane, SENZA MEDIARE tra culture e lo scrivo in lettere maiuscole. Quelle non sono tradizioni, sono crudeltà. Il sogno di libertà può essere alla portata di queste figlie. Sono d’accordo con la petizione che vuole dare, anche se tardivamente postuma, la cittadinanza a Saman. Sarebbe un messaggio anche per le altre. Ma certamente è ancora poco.
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