Rkomi: «La musica della mia periferia»
Navigli, Milano. Poco dopo le 19. Rkomi è seduto al mio fianco su un divanetto di Thaurus, l’agenzia che si occupa del suo management, mentre alcune persone vanno verso casa. Rkomi è lì e, allo stesso tempo, è in molte altre parti. Ma non a causa della stanchezza di queste frenetiche settimane, soprattutto dopo il successo del suo ultimo disco Taxi Driver, ora fuori anche in versione live per MTV Unplugged.
Rifuggendo l’idea di sentirsi “comodo” e appagato, Mirko Martorana (questo il suo vero nome) è abituato a vivere il quotidiano come spunto per una sua evoluzione. È allenato al cambiamento. È per questo che i suoi occhi, mentre mi racconta del suo passato nelle case popolari di Milano, mi parlano inevitabilmente anche di futuro.
Che bambino è stato?
«Sono stato tanti bambini. Ero introspettivo e avevo bisogno di tempo per fidarmi di chi avevo intorno. Ma poi, diventavo un’altra persona e davo tutto per gli altri».
È cresciuto a Calvairate, un quartiere popolare a Est di Milano. Come ha vissuto?
«Bene. Spesso e volentieri si perdeva tempo. Da piccoli è bello farlo. Facebook è arrivato quando avevo 15 anni, ma noi preferivamo stare fuori. Giocavamo a calcetto in cortile a tutte le ore».
È una socialità che si è persa?
«Non riesco a capirlo perché non ci sono più dentro. Ma ora non vedo le piazze colme come una volta. Non c’è più l’idea di condivisione di uno spazio come potevamo averla noi. Se si fa, ora è in modalità digitale. Magari è altrettanto bello, ma non lo capisco. Allora c’era il mito della piazza, piena di persone e di motorini. Il venerdì si andava sui Navigli e il sabato in Duomo».
Come si cresce nelle case popolari?
«Il mio quartiere non è troppo distante dal centro, quindi ho sempre avuto la fortuna di poter vedere entrambe le parti della città. Il quartiere popolare, però, ha una faccia decisamente più familiare. Come se in un palazzo si fosse tutti una cosa sola».
Sua madre ha cresciuto lei e suo fratello maggiore da sola.
«Sì, è stata papà e mamma. Io non ho mai conosciuto mio padre. Mio fratello è più grande di me di nove anni e ha avuto molte attenzioni “da papà” nei miei confronti quando era giusto farlo. Ma mia madre era tutto in casa. Aveva più lavori, cosciente del fatto che qualcuno doveva portare i soldi in casa, ma cercava di stare il più tempo possibile con noi. Io stavo molto con mio fratello quando lei non c’era».
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Testo di Giovanni Ferrari - Foto di Mattia Zoppellaro - Syling di Nike Antignani
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