Renato Zero: «Il giorno in cui sono diventato grande»
La sua vita e la sua musica lo hanno reso il simbolo dell’anticonformismo. Ora, alla vigilia di tre concerti-evento, il cantautore si confessa a Catherine Spaak e racconta che dietro le sue molte maschere c’è sempre stato un uomo timido in lotta con se stesso
Renato Zero è un essere speciale, intenso e carismatico, nella vita e sulla scena. Con il tempo, il suo volto si è fatto tela bianca sulla quale scorrono le molteplici passioni umane. La sua abilità nel raggiungere il nucleo di ciascuno di noi è la sorgente del suo immenso talento, un flusso che procede fra derisione, istigazione, tedio, carezze e frustate. Un poeta, un trovatore insolente e lacerato. Un alchimista, oggi 65enne, che converte l’esistenza in un canto per celebrare la vita, la bellezza, l’amore e la libertà. Un inno che i suoi fan potranno intonare con lui in tre concerti, dall’1 al 3 giugno, all’Arena di Verona: nella scaletta avranno il posto d’onore i brani dell’ultimo album, Alt.
Quarantacinque milioni di dischi venduti, 38 album, più di 500 canzoni composte di cui alcune inedite, stadi, arene con pubblico in delirio da anni: non ti gira mai la testa?
«La mia carriera è sempre stata una verifica con il pubblico, uno scambio che ha reso possibile la mia evoluzione. La gente mi riconosce la capacità di suscitare emozioni, sentimenti che riescono a riempire spazi vuoti, alleggerire i momenti di malinconia».
Che cosa ricordi delle tue prime esibizioni negli Anni 60, travestito, nei piccoli locali romani?
«Penso che dalla timidezza si possa guarire, ma ci vuole una grande dose di coraggio. Se non si vince quella battaglia, si rischia di essere penalizzati a vita e di finire sul lettino dell’analista. Con la musica mi sono sentito meno solo e ho acquisito la determinazione necessaria per diventare amico, padre e confidente del pubblico».
È vero che da ragazzo, quando facevi l’autostop, i camionisti ti prendevano a schiaffi e i militari a cazzotti?
«Ci sono stati degli episodi cruenti, è vero. Riguardo agli insulti mi chiedevo se avessi fatto qualcosa di sbagliato. Oggi mi rendo conto che quelle persone erano in grande imbarazzo nei miei confronti, ma io riuscivo a tranquillizzarle a tal punto che poi c’era sempre qualcuno che mi voleva offrire un caffè: finivano per scusarsi».
Nel tuo nuovo album, Alt, c’è una canzone intitolata Vi assolverete mai che si riferisce ai 40enni giudicanti, insultanti e sprezzanti nei confronti della diversità. Affermi che, invece, sono i giovani di oggi a essere divenuti i più intolleranti: come lo spieghi?
«Prendersela con l’esteriorità delle persone è aberrante. È come costruirsi un muro attorno e, se punti il dito, alla fine ti ritrovi in un deserto. Mi sono permesso di innescare questa miccia perché, come dici, la situazione sta tornando a essere insopportabile. Questi ragazzi dovrebbero far capire ai loro genitori che l’omosessualità non è una malattia e i loro genitori non dovrebbero trasmettere pregiudizi e altre forme di chiusura».
Come hanno preso le tue stravaganze i tuoi genitori?
«Sono stati meravigliosi e non mi hanno mai contestato. Mio padre era poliziotto, mia madre infermiera e mi hanno sempre dato la possibilità di essere me stesso. Bisogna avere della radici ben piantate altrimenti con il primo vento vacilli e perdi l’equilibrio».
Come ha segnato la tua vita sentirti ripetere all’ inizio della tua carriera: «Sei uno zero»?
«Nel 1954 in casa nostra avevamo la tv e guardavo affascinato gli spettacoli di attori come Giancarlo Cobelli, Mario Scaccia, Paolo Poli. Ammiravo i cantautori Domenico Modugno, Giorgio Gaber, Enzo Jannacci. Lucio Dalla mi ha subito comunicato la sensazione di essere meno solo. Attraverso la loro contaminazione ho potuto costruire il mio percorso e la mia stravaganza ha smesso di isolarmi dagli altri. “Zero” è stata la mia fortuna».
Che cosa ti ha insegnato la maturità?
«Mi guardo spesso dentro e sento la presenza di quelle personalità appena citate. Mia nonna Renata, che aveva i baffi - allora la ceretta era un sogno - mi dava lezioni sul rispetto, la complicità, la tolleranza e mi ha fatto entrare nel magico mondo della conoscenza degli anziani».
Hai dichiarato che, con Alt, ti rivolgi a chi «non vuole stare in panchina rassegnato al tempo e all’Isis, che è diventato un discorso ovvio e niente affatto preoccupante perché abbiamo uno stadio e un amante a cui dedicare il nostro tempo». Qual è l’alternativa all’indifferenza?
«Dalle nostre azioni dipende il futuro. La vera rivoluzione la dobbiamo fare in casa. Dovremmo esprimere con più forza le nostre perplessità, non tenere tutto dentro, non accettare l’omertà. La storia di Fortuna, la bambina che sarebbe stata abusata e uccisa a Napoli, è sconvolgente. Il colpevole non è solo colui che afferra una creatura e la lancia nel vuoto perché rifiuta di soccombere alla sua violenza, ma tutti quelli che hanno reso possibile con il loro silenzio quella mostruosità. Se vogliamo aver la meglio sull’inconsistenza, dobbiamo far crescere i nostri politici, dare noi a loro un’altra mentalità e fermare le caste. Bisogna meritare la propria poltrona, non lasciarla in eredità. Una volta era il popolo che rendeva pubbliche le proprie preferenze, oggi le urne elettorali somigliano al cilindro degli illusionisti».
Nel 2003 hai adottato Roberto Anselmi, la tua ex guardia del corpo. Che cosa ti ha spinto a compiere quel passo?
«Sono sempre stato portato a prediligere le persone sfortunate. Roberto aveva perso i genitori e ho sentito che era giusto potergli dare un supporto morale, poi diventato anche istituzionale. L’adozione è avvenuta dopo un po’ di tempo, quando aveva 30 anni ed eravamo consapevoli e pronti ad affrontare quella nuova condizione. Mi aveva colpito molto il modo in cui si era avvicinato a mia madre, frequentando la mia famiglia: era poetico, tenero e fra loro è nata una grande complicità. Roberto è diventato padre di due bambine, completando il mosaico che desideravo comporre intimamente: essere nonno è un’emozione che non volevo perdermi».
Che cosa rappresenta la famiglia per te, che sei sempre stato anticonformista e poco rispettoso delle regole?
«La parola famiglia mi fa pensare a una grande stazione ferroviaria dove ci si urta, ci si chiede scusa, si domanda un’ informazione, ci si saluta da un binario all’altro. La famiglia è la base ideale per sviluppare la propria personalità, per migliorarsi e per sconfiggere la solitudine. Quando si perdono i genitori, o i fratelli, ci si sente impoveriti e si rischia di entrare in depressione, soprattutto se si ha avuto una bella famiglia. Quando hai fatto tua quella positività e sono tue per sempre quelle radici, nessun’ altra cosa è più potente e profondamente dentro di te. Queste certezze devi trasmetterle a tua volta».
Hai dichiarato recentemente che senti la necessità di un contatto con gli altri in un momento in cui abbiamo tutti bisogno di accarezzarci, di rassicurarci: di che cosa abbiamo più paura?
«Abbiamo vissuto con la convinzione che il mondo avesse grandi distanze geografiche. Pensavamo che fosse un bene accorciare quelle distanze prendendo l’aereo o navi veloci e ora, a causa delle migrazioni, ci troviamo di fronte ai problemi dell’umanità intera. Anche noi italiani, in passato, ci siamo imbarcati con la valigia piena di caciotte e chiusa con uno spago alla ricerca di un futuro migliore. Non possiamo imputare ai migranti la colpa di bussare alla nostra porta, quando sappiamo da che cosa fuggono e in quali condizioni lo fanno. Non possiamo rinfacciare ad altri popoli di non avere ancora conquistato la democrazia».
L’assenza di Gesù, hai affermato, ci pesa moltissimo e il fatto che in futuro ritorni sulla Terra dipende dalla nostra volontà: che cosa intendi esattamente?
«Gesù, secondo me, si è avvicinato più volte a noi, magari con le sembianze di persone che ci sono sembrate insignificanti o poco appariscenti. La mia fede mi porta a vedere il Cristo dappertutto: un falegname, un idraulico. Tutti gli uomini portano Gesù nel cuore. Ci ha detto che Dio va cercato dentro di noi, non altrove. È forse per questo che la mia mente resta aperta a qualunque soluzione: bianca, gialla, afgana, anglosassone. Tutto questo si riassume con il precetto: “Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”. Mettere in pratica queste parole limiterebbe l’intemperanza e la violenza».
Ti va di giocare a “Se fossi”?
«Vai».
Se fossi una donna, che donna saresti?
«Sarei una donna poco incline alla subordinazione. Sarei combattiva e lotterei per la mia indipendenza. Non sarei disposta a soddisfare l’appetito di un maschio insolente».
Se tu fossi un fumetto?
«Ne sarei felicissimo: da fumetto starei più tempo con i bambini, che adoro».
Se tu fossi un monito?
«Attenti! Prima di essere aceto, sono stato vino».
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