
Una vetrata che dà sui tetti di Roma. Brioches e caffè sul tavolo, sulle pareti foto romantiche in bianco e nero ritraggono la coppia che mi siede di fronte sul divano. Sono a casa di Raoul Bova, 50 anni, e Rocío Muñoz Morales, 33.
Con noi per un po’ restano anche le loro bambine Luna, 6, e Alma, 3, poi vanno a giocare in camera e io accendo il registratore.

Iniziamo dalla prima serie tv che vi vede recitare insieme: Giustizia per tutti, prossimamente in prima serata su Canale 5.
Raoul: «È una serie incentrata sugli errori giudiziari e sulla voglia di verità che ne consegue. Mi ha sempre colpito il caso di Derek Rocco Barnabei, statunitense di origini italiane, condannato alla pena di morte per omicidio. Un caso che sollevò polemiche, non si seppe mai se fosse davvero colpevole, eppure fu giustiziato, nel 2000. Mi è rimasto impresso: sono convinto che bisogna credere nelle istituzioni, ma che capitino errori per cui persone innocenti finiscono per pagare. Roberto, il protagonista che interpreto, inizia a studiare giurisprudenza in carcere, dove finisce perché, rincasando, trova la moglie morta e viene incolpato. Si difenderà da solo, riuscendo a scagionarsi dopo 15 anni e aiuterà tanti altri ad avere giustizia. Poi farà il praticantato da lei».

Rocío: «Lei che sarei io. Vittoria è spagnola come me, ma ha un padre italiano che era avvocato e ha ereditato il suo studio legale. Ha subito molto questa figura paterna autoritaria, non sentendosi mai all’altezza, e si giudica molto. È brava, ma concentrata solo sul lavoro, non ha relazioni, come se non avesse cuore. È il mio esatto opposto: io non so vivere senza sentimenti. Grazie a Roberto imparerà ad aprirsi e a sentire l’anima dell’altro, anche se inizialmente non lo sopporta. Entrambi hanno caratteri fortissimi e con la voglia di comandare sull’altro, poi imparano ad ascoltarsi e a capirsi».
Nascerà una grande storia d’amore?
Raoul: «Lo scoprirete vedendo la serie».

Perché ci tenevate tanto a realizzarla?
Raoul: «Considero la privazione della libertà la cosa peggiore al mondo. Penso allo studente e attivista Patrick Zaki o a quanti, come lui, sono stati imprigionati per anni pur essendo innocenti. Resto dell’idea che chi ha commesso un reato debba scontare una pena, ma anche avere la possibilità di una rinascita, di un riscatto e di una speranza per il futuro. Credo in un carcere rieducativo e sono per la riabilitazione. Tra l’altro girare in un carcere vero, a Torino, è stato emotivamente forte».

Rocío: «Ci sono madri che hanno figli incarcerati ingiustamente e, magari dopo dieci anni, scoprono che erano innocenti. Mi premeva raccontare anche questo aspetto e mi incuriosiva la sfida d’interpretare un’avvocata di ghiaccio, mentre io sono passionale, metto i sentimenti al primo posto. Volevo raccontare una donna forte, cercando di farne intui-re le fragilità dietro la corazza».
In casa ripetevate insieme le battute?
Rocío: «Non lo facciamo mai, non studiamo insieme e in casa parliamo poco di lavoro: ci salva quello, come coppia. Sul set siamo due colleghi, per me non è Raoul, quello con cui dormo in pigiama. Ognuno di noi ha il suo camper, i suoi ritmi, il suo metodo. C’è una complicità speciale, quella sì».
Raoul: «Però è stata l’occasione per conoscerci anche dal punto di vista professionale. Non capita spesso di vedere com’è la tua compagna sul lavoro, è stato interessante. Avevamo fatto insieme solo lo spettacolo teatrale Love Letters, questa volta ci siamo scoperti sul set e spesso è dovuto intervenire il regista Maurizio Zaccaro, perché ognuno di noi tifava per il suo personaggio».

Che tipo di collega è Raoul?
Rocío: «Empatico, esperto, sa bene che cosa dirti e non dirti per far venire al meglio una scena. È generoso e s’impegna per il bene del progetto, anche se improvvisa e fa scherzi di continuo».
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Testo di Claudia Catalli - Foto di Vladimir Marti - Styling di Susanna Ausoni
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