«Quando saremo al sicuro»: l'editoriale di Silvia Grilli

In un bel film che esce in questi giorni al cinema, Familia, una moglie viene per anni massacrata di botte dal marito, ma non riesce a lasciarlo.
Il film racconta bene le fasi dell’annientamento di una donna: impedirle di vestire come vuole, controllarla ossessivamente, vietarle di lavorare, proibirle di parlare, insultarla, riempirla di botte, ridurla a niente.
In una scena, fanno un sopralluogo in casa due carabinieri, allertati da uno dei figli che ha segnalato nuove violenze domestiche. I militari chiedono alla madre se vada tutto bene. Quando lei annuisce, le ricordano i precedenti abusi: «Ma signora, lei se l’è ripreso in casa?».
Sì, se l’è ripreso in casa. Si è arresa all’idea che il suo matrimonio sia un tormento.
I due carabinieri forse non sanno che, dopo le botte, i violenti si mostrano pentiti, promettono che non lo faranno più, insinuano il senso di colpa: sono tuo marito e tu mi vuoi abbandonare? Sei cattiva, molto cattiva.
C’è molta verità in questo film, tratto da una storia vera. Soltanto chi conosce la violenza domestica comprende perché le donne abusate tornino a vivere con i loro seviziatori, perché tacciano per il timore di essere giudicate dagli altri, neghino per la paura di conseguenze peggiori.
Danno ancora una possibilità agli uomini violenti perché non si fidano della giustizia e credono di essere destinate a non liberarsi mai dei mariti.
Molto dipende da una scarsa consapevolezza. Non tutte tra noi si rendono conto di che cosa sia abuso. Se sei cresciuta a tua volta in una famiglia dove la violenza era normale, fai fatica a riconoscere una relazione tossica. Riempirti di botte è solo la manifestazione più evidente.
Ma violenza è anche decidere come devi vestirti, che cosa devi pensare, come devi votare, chiederti di non vedere più i tuoi amici, costringerti a lasciare il lavoro, zittirti, svalutarti, farti credere di non valere niente, farti sentire colpevole.
Quando il mostro ti ha privata di forze, ridotta a una nullità alla sua mercé, comincia a picchiarti, certo della sua impunità, perché tu non farai niente.
Non a caso i femminicidi avvengono quando lei prende coscienza, denuncia, decide di lasciarlo, prova ad andarsene.
L’uomo punisce con la morte la nuova libertà della donna. Lei ha capito, non vuole più essere la sua schiava torturata. Lui, che non vuole perdere il privilegio del dominio, si vendica ammazzandola.
Come i due carabinieri di Familia, molti di noi si stupiscono di una moglie che accetti per anni le percosse senza lasciare il marito. Non comprendono la vergogna che queste donne provano per aver sopportato senza il coraggio di parlare.
Quando per quattro volte vai al Pronto Soccorso per i traumi, continuando a negare e sostenendo di essere caduta dalle scale, saranno i medici ad avvertire la polizia, quando l’ultimo trauma sarà fatale.
La paura è devastante. La moglie del film lo spiega: non lascia il marito perché può essere terribilmente pericoloso. Una delle ragioni per cui le donne non se ne vanno è il terrore di essere uccise assieme ai figli.
Terrore che va di pari passo con la sfiducia nella giustizia. Il timore di lasciare senza essere protette è superiore al timore di rimanere.
La cronaca lo racconta ogni giorno. Donne che, quando decidono di separarsi, vengono trucidate assieme ai loro figli, come Giusi Massetti, uccisa a Nuoro con i suoi ragazzi dal marito ossessivo.
Donne che denunciano e non vengono tutelate: l’ultimo caso a Torino, con lei finita a coltellate davanti ai bambini dall’ex coniuge che indossava il braccialetto elettronico e aveva il divieto di avvicinamento.
Nessuna di noi nasce per essere vittima, eppure, in misura minore o maggiore, in qualche momento della vita lo diventiamo tutte.
Ma non è vero che non possiamo farci niente. Quando capiremo che cosa sia veramente la violenza e non la accetteremo più dal primo istante, non saremo perse, non saremo sole.
Perché saremo tante, non ne lasceremo indietro neanche una e ci sentiremo al sicuro.
© Riproduzione riservata