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Grazia

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Nella mente di una madre che uccide

Nella mente di una madre che uccide

foto di Grazia.it Grazia.it — 4 Luglio 2022
Il caso della mamma che in Sicilia ha assassinato la figlia di 5 anni ha sconvolto l’Italia. Ma com’è possibile che una donna arrivi a tanto? Grazia lo ha chiesto a chi indaga il lato oscuro della maternità
Nella mente di una madre che uccide (2)

Accade, in media, 20 volte l’anno. Un adulto uccide un bambino piccolo. L’infanticidio è un delitto talmente atroce, incomprensibile, ingiusto, che non vorremmo mai averne notizia. Specialmente se a commetterlo è una madre.

E, come avvenuto il 13 giugno a Mascalucia (Catania), otto volte su dieci la responsabile di un infanticidio è proprio una mamma.

Che cosa scatta nella mente di una donna per arrivare a spezzare il legame interiore che la unisce al proprio figlio, fino al punto da togliergli la vita? Che cosa è scattato nella mente di Martina Patti, 23 anni, che dice di aver colpito la sua Elena con un coltello e senza guardare?

Ora il suo ex, padre della piccola, dice che la donna era priva di amore per la bambina.

Nella mente di una madre che uccide

Questo tipo di delitti, spiegano gli esperti della psiche, può nascere da due diverse aberrazioni del pensiero. Da un lato c’è il desiderio di risparmiare al bambino una vita infelice, nel convincimento, immotivato e irrazionale, che il piccolo abbia problemi di salute, un ritardo mentale o, addirittura, sia “posseduto dal male”. In questo caso si parla di “omicidio pietistico”.

L’altra spiegazione è che ci sia la volontà di punire il padre, colpevole di avere abbandonato la compagna e di avere una nuova partner: è il cosiddetto complesso di Medea, evocato nel caso di Mascalucia. In entrambi i casi, non si tratta di un raptus omicida.

«C’è una scultura realizzata dall’artista William Wetmore che raffigura bene questo mito della madre che uccide: rappresenta Medea con una mano che stringe un pugnale e l’altra appoggiata sotto il mento, intenta a riflettere sul da farsi perché il suo è un delitto pensato, alimentato nel tempo dalla gelosia, un sentimento che qualche psicoanalista definisce “mancanza d’amore”», spiega Michele Mezzanotte, psicologo e psicoterapeuta.

«Il complesso di Medea può manifestarsi anche in altri modi, meno tragici. Per esempio attraverso crudeli forme di alienazione parentale nei confronti dell’ex: ti impedisco di vedere tuo figlio, gli parlo male di te. Ma alla base c’è sempre un meccanismo di “spostamento” della rabbia: prima la incanalo sull’ex, poi sulla sua nuova compagna, infine sul figlio. Con il passare del tempo, il risentimento però diventa più forte, perché la rabbia, se non è incanalata bene, cioè trasformata in energia per cambiare noi stessi, non porta da nessuna parte, continua ad alimentarsi inutilmente. E, in situazioni estreme, può portare addirittura a commettere un delitto», afferma Mezzanotte.

Nessuno ha dimenticato il caso di Cogne del 2002, quando una giovane mamma, Annamaria Franzoni, uccise il figlio Samuele, di 3 anni (lei si è sempre dichiarata innocente)....

Continua a leggere l'articolo sul numero di Grazia ora in edicola

Testo di Silvia Calvi

© Riproduzione riservata

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