Nel mio grande cuore

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L’infanzia con un padre assente. La separazione dalla donna che è stata il suo grandissimo amore. Il rimpianto di non aver avuto figli. Il rapporto con gli uomini, il ricovero per combattere la depressione e il trauma, rimosso per anni, di una violenza subìta. Piero Piazzi è uno dei più influenti agenti di modelle al mondo. Ma solo alla direttrice di Grazia, Silvia Grilli, ha voluto raccontare i suoi momenti più privati, l’incontro che gli ha dato una nuova vita e il desiderio di voler essere sempre ricordato come una persona gentile

Arriva per l’intervista pieno di parole gentili per me. Gli piace Grazia, ama la libertà che si respira nei nostri articoli, promette che mi aprirà la sua anima. L’anima di Piero Piazzi, 60 anni, uno dei più influenti agenti di modelle al mondo: da Naomi Campbell a Mariacarla Boscono. Ex modello lui stesso, è una personalità riconosciuta nel mondo della moda.

Ti senti più maschio o più femmina, Piero? 
«Ognuno di noi ha un lato dell’altro sesso: le donne non nascondono mai la loro parte maschile, gli uomini si vergognano della loro parte femminile. Io detesto definirmi “maschio o femmina”. Siamo persone».

Hai compiuto 60 anni ad agosto 2023.
«È stato il più bel compleanno della mia vita: con due amiche, perché iniziavano a esserci problemi con mia moglie. Pensavo fosse la mia famiglia, ma in agosto è crollato quello che pensavo, perché mia moglie non mi ha difeso in un fatto che mi ha molto toccato. Io non ho mai avuto bisogno di fare “coming out”, perché per me è tutto naturale. Non ho mai convissuto con un uomo, non per vergogna, ma perché ho avuto veramente pochissime relazioni con loro e disastrose. Mia moglie è la persona che ho amato di più nella vita, per 22 anni, e penso che lo rimarrà».

Perché hai avuto relazioni disastrose con gli uomini?
«Soffro di depressione, due anni e mezzo fa decisi il ricovero alla clinica “Le Betulle”. Lì ho riconosciuto e accettato i traumi forti della mia vita. Non vorrei cancellare niente, ma non vorrei rifare tante cose e vorrei farne tante altre: un figlio oggi è la mancanza più atroce. Grazie al cielo ho Talita, mia nipote; i bambini africani seguiti con la mia organizzazione no profit To Get There e Nicole, la mia amica di 10 anni affetta dalla Sindrome di Down».

Che cosa hai imparato ad accettare di te?
«Oggi amo la mia parte femminile: sensibilità, coccole. Non bevo, non mi drogo, non fumo più. Mi sono drogato, non sono mai stato tossicodipendente, non sono mai stato un alcolizzato, però sono cambiate tante cose curandomi dalla depressione. Sono molto felice di essere diventato testimonial del “Progetto Itaca”, che aiuta a considerare la depressione come una malattia che va curata. C’è ancora molta vergogna, io ho tentato il suicidio da giovane, quando facevo il modello, ma oggi amo la vita come mai prima».

Com’era tua madre?
«Imponente. Per lei l’amore era possesso. Io non ero desiderato. Avevo già una sorella più grande di 12 anni e un fratello di 6. A quei tempi non era possibile abortire, se non clandestinamente, ma i miei ci hanno pensato. Mio padre non voleva più figli, mi chiamava “Sopravvenienza passiva”. Era direttore commerciale di un quotidiano, Il Resto del Carlino, a Bologna. Abbiamo avuto in casa tanti politici, Giovanni Spadolini (ex presidente del Consiglio, ndr), molti altri».

Tua madre lavorava?
«Non ha mai lavorato fuori casa. Era molto bella, piena di problemi, depressa. Io ero suo e lei voleva essere l’unica donna della mia vita».

Come lo manifestava?
«Con la presenza 24 ore su 24. Giocavo a tennis: c’era lei; andavo a nuoto: c’era lei. Io esprimevo il disagio per un padre assente. Soffrivo di enuresi notturna, crisi epilettiche. Esistono dei fenomeni per cui l’epilessia è come se te la procurassi per far sentire la tua presenza. Io ero molto legato alla mia maestra elementare, Luisa Trombetta. L’avevo riconosciuta come mamma. A 7 anni, scrivevo: “Non volevo nascere in questo mondo”».

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Come vedevi tua moglie?
«Come la mia bambina e tuttora credo sia la mia bambina. Non è una persona dolce, è il mio opposto. Abbiamo avuto una storia 10 anni prima di metterci veramente insieme. Allora la sua figlia più piccola aveva 3 anni e lei stava per separarsi. Io avevo 27 anni, poi lei partì per un viaggio, la nostra storia s’interruppe».

È stato un grande amore?
«Grandissimo e vorrei che continuasse a esserlo. L’amore ha diverse forme. Sono sicuro che, qualsiasi cosa succeda a mia moglie, arriverò sempre prima di tutti. I suoi figli erano per me anche i miei figli, ma è stato un mio grande errore di valutazione».

Quando hai cominciato a pensare a un figlio tuo?
«Ricordo ancora i nomi delle mie prime fidanzate: Daniela Vecchietti, Claudia Bigoni, Simonetta De Nicolais, con cui ancora sono amicissimo. Volevo avere tanti figli».

E ci hai provato allora?
«Ero troppo giovane. Avevo 15, 16 anni».

Hai subìto violenza nella tua vita?
«A 11 anni, ma l’episodio è riaffiorato tre anni fa, durante il mio ricovero alle “Betulle”. La dottoressa Sacchezin, che mi ha dato, non ridato, la vita, me l’ha fatto ricordare. Ero a Malta per approfondire l’inglese. Non c’era posto presso le famiglie, andai in albergo. Una sera feci il bagno in mare e, dalle rocce, comparve un uomo che mi violentò. Il mio cervello l’aveva completamente rimosso».

Un uomo che conoscevi?
«Un ospite dell’albergo. Mi sono ricordato che nei giorni a venire l’ho rivisto: passeggiavamo. Lo vedevo come mio padre. Era molto più grande di me. È riaffiorato il nome, che cosa faceva, tutto. Lavorava per l’Alitalia ed era lì per un corso d’inglese. Quando è riemerso tutto, sono stato malissimo in clinica, barcollavo per i corridoi vomitando bile, vedevo la camera girare intorno, mi volevano sedare ma ho rifiutato perché volevo viverla, al punto che ho perdonato».

Non hai più rivisto quell’uomo?
«No. Mi chiamò a casa. L’ho “googlato” e non è venuto fuori. Oggi lo denuncerei. È pedofilia, e mi ha dato anche una risposta ai miei rapporti complicati con gli uomini. Il mio ultimo compagno, A., è il mio migliore amico oggi. È stato un rapporto molto difficile, ma oggi è una persona che c’è. Nel subconscio, mia moglie avrebbe voluto che la mia parte omosessuale sparisse. Ma io do poca importanza al sesso, il sesso è solo l’inizio».

Perché hai cancellato la violenza subìta?

«Per sopravvivere. Ma quando entrai alle “Betulle” dissi a mia moglie: “Non ho più voglia di sopravvivere, ho voglia di vivere”».

Il mondo della moda è autentico?
«Non ho paura della mia morte, ho paura della morte delle persone che mi hanno lasciato qualcosa. Ci sono persone che non muoiono mai, per me Franca Sozzani (storica direttrice di Vogue Italiandr) e Giovanni Gastel (grande fotografo, ndr) erano due grandissimi amici. Quando ho deciso di sposarmi, Franca m’ha confidato: “Tanta gente dice che il tuo matrimonio durerà poco, secondo me durerà invece tantissimo”. È durato 22 anni. Io non vorrei alla mia morte essere ricordato come “quello delle modelle”, ma per essere stato una persona gentile».

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A 60 anni che cosa hai capito dell’amore?
«Non ho mai amato realmente un uomo, ho sempre cercato la figura paterna. In una donna, anche se mia moglie è 10 anni più grande di me, non ho mai cercato la figura materna. In 22 anni di matrimonio posso avere avuto un’attrazione fisica per un uomo, ma non ci ho mai fatto sesso. Ho amato immensamente mia moglie. Forse perché non l’ho veramente avuta, credo nella famiglia».

Ti sei sempre reso conto di essere bello?
«Non me ne rendevo conto quando facevo il modello, lo vedo adesso quando guardo le foto di allora. Per indole, pensavo sempre prima agli altri, poi a me, come nel matrimonio. Nella classifica c’erano: mia moglie, i suoi figli e io. Oggi, dopo il ricovero, sono diventato primo in classifica. Mia moglie mi ha detto: “Ti preferivo prima”. Ho risposto: “Oggi però esisto”».

Che cosa ricordi soprattutto del tuo ricovero?
«Un giorno mi sono abbracciato, abbracciavo Piero piccolo, piangevo. Da allora ho iniziato a postare delle foto d’infanzia e a dire: “Perdono mia madre, mio padre, tutte le persone che mi hanno fatto male nella vita, persino la persona che mi ha violentato. Gli auguro che abbia risolto i suoi problemi e che non abbia fatto altri danni”».

Come sono oggi i rapporti con tua moglie Silvia?
«L’errore di Silvia è stato coinvolgere troppe persone nella nostra crisi. Solo lei e io sappiamo e sapremo parlare di noi due, nessun altro».

Raccontami il tuo desiderio di avere figli.
«Ieri sera è venuto a un mio evento Jacopo Etro, amico d’infanzia: oggi ha un marito e una bambina. Quante volte racconto anche a Naomi (Campbell, ndr) che avrei desiderato avere un bambino. Quando ci siamo sposati, mia moglie ne aveva già tre. Se io e Silvia fossimo rimasti insieme la prima volta, quando Margherita aveva 3 anni, oggi avrei un figlio, ma non condanno lei. Ogni volta che vado in Africa dico: “Ne porto uno con me”, ma l’adozione non è legale in Uganda. Però considero come una figlia mia nipote Talita».

Vorresti fare un figlio ora?
«Ho 60 anni e non sono egoista. Vorrebbe dire che quando io avrei 83 anni, lui ne avrebbe venti, una roba orrenda».

Che cosa pensi della gestazione per altri?
«Sono completamente d’accordo. Naomi ha avuto due bambini dopo aver congelato gli ovuli, è stata la sua salvezza. Lotterò fino alla morte per le coppie omogenitoriali, perché l’amore è amore. Magari sarei stato molto più amato da una coppia di due papà, che ne sai...».

Non credi che sia uno sfruttamento del corpo delle donne più povere?
«Sì, ma sono scelte e di fronte alle scelte altrui non mi pongo mai in posizione di giudice».

Durante il vostro matrimonio avete mai progettato di avere un figlio?
«No, perché Silvia era già in menopausa. Io compivo 40 anni, lei 50».

Come ti vedi tra vent’anni, mentre la tua vita sta prendendo una piega diversa?
«Da quando ho deciso di separarmi, ho paura del futuro. Ho sempre detto: “Il mio grande timore è che Silvia muoia prima di me, se muore Silvia muoio io”. Quando sono uscito dalle “Betulle” ho pensato: “Se muore Silvia, vivrò comunque, perché adesso esisto, sono il primo in classifica”. Però ho veramente paura d’invecchiare, perché gli altri avranno famiglie grandi, nipoti, bambini che cresceranno e io no. Mio fratello Luca, a cui sono legatissimo in questo momento, non ha figli e mia sorella ha una figlia molto grande. Spero tanto che Talita abbia dei bambini, però non è giusto che io non abbia avuto un figlio, perché sarei stato un grandissimo padre, sarei stato veramente una brava persona» (Piange).

Mi spiace, Piero...
«Ora passa, passa tutto. Ho fatto un gesto coraggioso, lo sto pagando perché la casa è vuota, vedo mia moglie dappertutto. Non so se riuscirò a continuare vivere in quella casa, mi ricorda tanto di lei. Per me lei ci sarà sempre, perché è nel mio grande cuore. Però ho paura del futuro» (Ha la voce rotta dall’emozione).

Hai paura di dormire da solo?
«Lo sai, vero? Adesso ho assunto una signora che da lunedì dormirà in casa con me» (Continua a piangere).

Piero, hai tante persone che ti vogliono bene...
«È giusto piangere. Ho tanta paura della solitudine. Sono nato abbandonato. Per questo non abbandonerò mai mia moglie. Gliel’ho detto, sembra che non ci creda... Ma glielo dimostrerò».

foto di LUIGI D’ORIANO

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Jodie Foster: "Faccio film per capire chi sono"

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Jodie Foster festeggia al cinema 60 anni da star. Nel thriller Vita privata, da oggi nelle sale, è una psicanalista tormentata. Ma a noi racconta come, grazie alla sua carriera, ha capito che le donne over 50 hanno tutte le carte per vincere

Come trascorre il giorno del suo compleanno una diva planetaria come Jodie Foster, sotto i riflettori dall’età di tre anni? «Lavorando», mi risponde accomodata sulla poltrona, mentre sorseggia un cappuccino. Neanche a farlo apposta la incontro proprio il giorno in cui compie 63 anni e mi confida che finita l’intervista andrà con gli amici a festeggiare. Sessant’anni di carriera tondi, fresca del Golden Globe vinto a gennaio per la sua performance nella serie True Detective: Night Country, la regista e attrice torna al cinema con il nuovo film di Rebecca Zlotowski Vita Privata. Presentato in anteprima al Festival di Cannes e dall’11 dicembre al cinema, la vede calarsi nei panni della nevrotica psichiatra Lilian Steiner, ossessionata da un caso molto delicato.

Che rapporto ha con il passare del tempo?

«Buono. Mi sento più felice che mai in vita mia».

Davvero?

«Parlo di una gioia profonda, non di quello che mi accade giorno per giorno. Le cose della vita, belle e brutte, capitano. Ma vivo un momento in cui il lavoro sta andando sempre meglio e ho superato l’ansia delle domande: “Sarò in grado di farcela con le mie forze?”, “Avrò una famiglia?”. Tutte questioni archiviate, per fortuna non devo più preoccuparmene. Da giovane passavo tanto tempo a pensare a me stessa, dopo una certa età mi sono concentrata sulle storie degli altri, è più facile e divertente».

Anche in Vita privata ascolta le storie degli altri.

«La mia Lilian non è una psichiatra risolta, anzi, è parecchio nevrotica. Non riesce a comprendere come sia possibile che la sua paziente in cura da nove anni (Virginie Efira, ndr) si sia potuta uccidere. Non ci crede, non ammette la possibilità che lei, in quanto psichiatra, sia stata così sorda».

Ritiene che come società abbiamo perso il potere di ascoltare?

«Mostrare curiosità verso gli altri è tutto. Noi attori siamo allenati all’ascolto, per lavoro siamo chiamati a calarci nelle vite degli altri ed è una bella abitudine mettersi nei panni altrui, un esercizio che possiamo fare tutti. Ci aiuterebbe come società».

Dal titolo del film alla realtà, essendo conosciuta in tutto il mondo sin da piccola come ha fatto a proteggere la sua, di vita privata?

«Sforzandomi sempre molto. Lavorando sin da bambina sapevo di dovermi proteggere: volevo andare a Disneyland, ma senza le telecamere che mi seguissero. Volevo essere libera di andare al supermercato, o prenotare un volo senza che nessuno lo facesse al posto mio. Ci ho sempre tenuto a mantenere viva la mia indipendenza, tracciando una linea netta tra la mia vita pubblica e quella privata. Oggi sono contenta di aver seguito quell’impulso».

Nel film la sentiamo sfoggiare un francese fluente…

«Mi fa sentire più sicura di me, rispetto all’inglese. Sarà che devo la passione per il francese a mia madre, che me lo fece studiare». 

Come mai?

«Non aveva mai viaggiato fuori dagli Stati Uniti fino ai cinquant’anni, ma la cultura europea l’affascinava. Comprava di continuo riviste e libri su Parigi e Napoleone, addirittura dipinse le pareti di casa con i colori delle antiche pietre romane. Quando ero bambina fece il viaggio dei suoi sogni e andò in Francia, con un tour in bus di quelli turistici».

Che cosa le disse al ritorno?

«"Jodie, impara il francese e diventa una grande attrice francese". Era il suo modo di dirmi che sognava per me una vita più ampia di quella americana. Anche perché erano gli anni 70, al potere c’era Nixon, non era facile essere americani. A mia madre piaceva l’idea che potessi scegliere di essere libera di inventarmi una vita tutta mia».

Ha fatto lo stesso con i suoi figli?

«Dovrebbe chiederlo a loro (Charlie e Kit, 27 e 24 anni, ndr). Intanto uno di loro sa parlare benissimo il tedesco, le mie radici tedesche ne sono contente».

Che rapporto ha con la psichiatria?

«Sempre stata scettica, ma una volta mi sono fatta ipnotizzare».

Com’è andata?

«Mi ripetevo: "Ma perché pagare 90 dollari a un tipo quando potrei smettere di fumare gratis oggi stesso?", eppure ha funzionato. Non amo la psicanalisi, per quanto la trovi attraente da un punto di vista cinematografico: non mi piace Freud, in America nessuno lo stima più, era un grandissimo sessista. Trovo però importante che al cinema si parli di salute mentale».

E che si mostri come le donne over 50 abbiano desideri, diritto al piacere e una vita sessuale appagante, come la sua Lilian con l’ex marito interpretato da Daniel Auteuil: perché tutto questo al cinema si vede ancora poco?

«Dovremmo parlare per ore della rappresentazione del corpo femminile. Purtroppo i pregiudizi sulle donne dopo una certa età sopravvivono, non solo al cinema. Ma sono speranzosa: registe come Zlotowski dimostrano di voler raccontare le donne per quello che sono, con tutti i loro desideri. La mia Liliane non è solo una psichiatra, una madre e una nonna, ma una donna che si esprime anche attraverso il  corpo».

Con Auteuil avete avuto un intimacy coordinator?

«È una figura che ho scoperto sul set di True Detective. Ho detto: "Che lavoro pazzesco, dov’eri tu quando avevo 16 anni?". Ormai io e Auteil abbiamo superato i 60 e abbiamo risolto senza, ma sono contenta che questa figura esista, era importante che ci fosse».

Che cosa di lei non hanno mai capito finora?

«Non sono seria come credono. Non ho mai capito perché il pubblico mi affibbi quest’aura di serietà, io sono una persona leggera. Certo, se mi fanno domande serie rispondo in modo serio e amo fare lavori significativi, ma se sapeste com’è la mia giornata ideale cambiereste idea».


Com’è la sua giornata ideale?

«Sveglia presto, sci ai piedi, la sera una partita di calcio in tv e una cena gustosa. Altro che tormentata, sono una persona felice e ottimista verso il futuro».

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Come trasformare l'eredità in un'opportunità per i propri figli

Elena Valzania x Alleanza
L'eredità di famiglia può assicurare un sostegno economico ai propri cari. Basta sottoscrivere una polizza di investimento adeguata, affidandosi a un bravo consulente

Elena Valzania ha 57 anni e vive a Ravenna, in una casa che ha ereditato dalla sua famiglia. Cresciuta in un contesto economicamente stabile, è stata segnata più di quanto pensasse da ciò che ha ricevuto in eredità: non solo beni, ma un intero modo di vivere e pensare il denaro. «I nostri familiari conducevano vite semplici, risparmiavano e investivano».

A un certo punto, la malattia entra nella sua storia familiare e si intreccia alle questioni economiche. Il padre di Elena si ammala gravemente, per poi morire quando lei ha 20 anni. Insieme con i beni materiali, Elena riceve anche un’eredità invisibile: l’idea che il lavoro debba essere per forza fatica. Un peso silenzioso che la accompagna a lungo, anche dopo la laurea in Farmacia, quando si avvicina all’omeopatia e inizia a lavorare. «Rispetto allo studio, lavorare mi sembrava facilissimo, ma proprio per questo mi pareva che non valesse abbastanza». E infatti, quando viene assunta in una cooperativa di Bologna, non negozia lo stipendio.

La sua carriera aziendale si interrompe durante la sua prima maternità: l’azienda viene acquisita e, al rientro dal congedo, capisce che stanno cercando di spingerla alle dimissioni.

Da allora, Elena non è più rientrata nel mondo del lavoro “ufficiale”. I soldi necessari ad andare avanti, però, in un modo o nell’altro, entrano. Ed Elena procede nella sua vita, con una leggerezza sconosciuta ai suoi familiari. Che le è concessa, però, anche grazie all’eredità materiale ricevuta da loro: «Mio marito e io abbiamo sempre avuto la mentalità di investire sulla nostra famiglia. Tuttora siamo concentrati sul mantenere i nostri tre figli agli studi e i beni di famiglia sono un mezzo per sostenere questa nuova generazione».

Parola all'esperta: le polizze come strumento di tutela

RISPONDE ELENA BELLUCCI DELL’AGENZIA ALLEANZA DI EMPOLI (FI)

1) Come si gestisce un’eredità ricevuta?
«Ricevere un’eredità può risultare persino destabilizzante, specie se si tratta di grandi somme, e senza una gestione attenta il rischio è di sperperare il patrimonio o di non trarne vantaggio. È insomma necessaria un’attenta pianificazione che parta dai bisogni dell’individuo o della famiglia, ragione per cui può essere molto utile affidarsi a un buon consulente assicurativo e finanziario. Tra le soluzioni possibili ci sono le polizze di investimento, che combinano l’opportunità di investimento con la componente assicurativa, che offre una protezione sul capitale o sul rischio di vita. Ne esistono di diversi tipi: con quelle a capitale garantito, per esempio, si ha la certezza che il capitale che sarà restituito all’uscita dall’investimento non sarà inferiore a quello versato».

2) Che vantaggi hanno, rispetto alle altre soluzioni? 
«Le polizze da investimento sono nate per chi desidera assicurare un sostegno economico ai propri cari, anche in caso di decesso, con l’aggiunta di un rendimento. Offrono però anche altri vantaggi: uno dei più importanti sta nel fatto che il capitale così collocato non rientra nell’asse ereditario e non viene considerato nel calcolo dell’eredità ai fini della tassa di successione. In caso di morte del contraente le somme passano al beneficiario, nel rispetto delle quote di eredità legittime disponibili, e questo rende la polizza un ottimo strumento per tutelare le coppie non sposate o i minori».

Testo di Annalisa Monfreda
*co-fondatrice di Rame, rameplatform.com

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«Quanto ti dicono: "se non puoi violentare tua moglie, chi puoi violentare?"»: l'editoriale di Silvia Grilli

Silvia Grilli
Il nuovo numero di Grazia è ora in edicola. Ecco l'editoriale della Direttrice Silvia Grilli

In una scena di C'è ancora domani, la protagonista Delia, costretta dal marito brutale a un rapporto sessuale, toglie un granellino di polvere dal comodino, completamente estranea a quanto le sta accadendo. La dissociazione è un'autodifesa comune tra le vittime di stupro.

Una ragazza che intervistai mi raccontò che, durante la violenza, cercava di ricordare le parole delle sue canzoni preferite. Era come congelata nel panico: non urlò, non si mosse, terrorizzata di subire ulteriori aggressioni.

Jessica Mann, una delle testimoni al processo contro il produttore stupratore Harvey Weinstein, ha ricordato di essere rimasta immobile, mentre lui la violentava. Mann ha citato in tribunale uno studio scientifico sulle difese messe in atto da esseri umani e animali. Questi ultimi si fingono morti di fronte a un attacco, perché così i predatori sembrano perdere interesse. Ma, per ironia della sorte, è proprio l’immobilità della vittima a mettere in dubbio la credibilità delle donne nei dibattimenti per stupro. «Non si è mossa, quindi vuol dire che ci stava».

Giorgia Meloni ed Elly Schlein hanno voluto una legge per cambiare la vecchia norma, secondo la quale è reato solo se si viene costrette ad atti sessuali con modi violenti o minacce. Le due leader condividono l’idea che il consenso debba essere dichiarato all’inizio e durante il rapporto.

L’atto sessuale deve avvenire per libera scelta, non per ricatto, abuso di potere o quando la volontà è ridotta per effetto di alcol o sostanze. E non è consenso solo perché si era detto «sì» in passato o perché si è sposati. Il silenzio o l’inerzia non sono acquiescenza, ma una conseguenza della violenza stessa. E ci si può tirare indietro, anche dopo aver, inizialmente, condiviso l’approccio.

La legge, nata dal patto Meloni-Schlein, è stata approvata all’unanimità dalla Camera dei deputati. Ma al Senato, nella Giornata contro la violenza degli uomini sulle donne, è stata bloccata e rinviata. Il ministro Matteo Salvini sostiene che «Il consenso preliminare lascia spazio a vendette personali che intaserebbero i tribunali».

Cioè, la magistratura si ritroverebbe con orde di donne che mentono. Sinceramente, non ho mai visto in Italia tutta questa folla di femmine pronte ad accusare per incastrare qualcuno. Sinceramente, mi pare il contrario: le vittime non denunciano perché conoscono bene gli interrogatori e il calvario che dovrebbero sopportare se lo facessero. Sinceramente, mi sembra una bocciatura per paura di perdere i privilegi maschili.

In una scena del film After the Hunt - Dopo la caccia, Julia Roberts dice a una studentessa che accusa un professore di stupro: «Non denunciare, altrimenti diventerai radioattiva. Il nostro sistema è dominato dai maschi. Ne avrai bisogno quando chiederai lavoro, e non lo otterrai perché saranno terrorizzati che un giorno tu possa accusare anche loro».

La notte del weekend scorso, a Milano, una ragazza ha denunciato per violenza un giovane con il quale si era allontanata. «Mi ha violentata», ha detto. «Era consenziente», ha ribattuto lui. Un consenso che fino a un certo punto c’è stato. Poi non più.

Lo stupro non è stupro solo se ti costringono con la pistola puntata alla tempia. Lo è anche quando io non voglio o non voglio più. Vale anche nel caso di rapporti sessuali tra conviventi: solo «sì» è «sì».

Anni fa, un senatore californiano si oppose a una legge contro lo stupro nel matrimonio, dicendo: «Se non puoi violentare tua moglie, chi puoi violentare?». Ecco, è proprio questo il concetto: né il corpo di tua moglie né quello della ragazza che si allontana con te, poi cambia idea, ti appartengono. Il loro corpo è loro, non tuo.

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GRAZIA presenta il numero straordinario "L'arte è donna" con direttrice ospite Patrizia Sandretto Re Rebaudengo

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Questa edizione speciale celebra il talento e il coraggio di artiste, galleriste, progettiste e collezioniste

Grazia, il magazine di Reworld Media diretto da Silvia Grilli, presenta il numero straordinario L'arte è donna. Il talento e il coraggio di artiste, galleriste, progettiste, collezioniste sono il filo conduttore di questa edizione speciale che ha come direttrice ospite Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, fondatrice e presidente della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, collezionista e mecenate riconosciuta a livello internazionale.

“Nella storia dell’arte le donne sono state cancellate o relegate al ruolo di mute muse ispiratrici, tagliate fuori dalle scuole, dalle botteghe degli artisti”, dichiara Silvia Grilli, direttrice di Grazia. “Con questo numero abbiamo voluto invece raccontare il talento femminile che c’è e c’è sempre stato, la creatività, pervicacia e abnegazione delle artiste donne, il loro sguardo diverso. Quando ho chiesto a Patrizia Sandretto Re Rebaudengo di curare questo numero di Grazia, ho trovato un’interlocutrice appassionata, capace di raccontare nel modo migliore quel genio che non è appannaggio esclusivo degli uomini”.

“Questo numero speciale contiene storie, opere e luoghi che raccontano la mia vita con l’arte contemporanea, sul filo di una grande passione, un sogno, una visione che seguo e inseguo da oltre trent’anni”, spiega la direttrice ospite Patrizia Sandretto Re Rebaudengo. “Fra queste pagine, quel filo rosso è diventato un progetto a più voci che ha unito le forze per parlare dei cambiamenti del mondo delle donne: artiste, collezioniste, direttrici di musei, architette, scienziate. Nessun separatismo, le storie che abbiamo scelto, insieme con la direttrice Silvia Grilli e lo staff di Grazia, superano la tradizionale categoria di ‘femminile’, nell’editoria così come nell’arte, per portarci in un territorio di ricerca, uno spazio plurale, aperto sul presente, sensibile al diritto all’autodeterminazione, al di là di nascita e appartenenze”.

La copertina del numero è un’opera della pittrice e fotografa polacca Paulina Olowska intitolata Weeds (2017 - Courtesy Fondazione Sandretto Re Rebaudengo) che attraverso un nudo femminile - genere che nella storia dell’arte è stato per lo più appannaggio dello sguardo maschile - reclama la propria libertà di espressione.

Per raccontare il suo percorso, Patrizia Sandretto Re Rebaudengo si è affidata alle domande attente del giornalista Dario Maltese e insieme hanno parlato di arte, emozioni e futuro. Si prosegue poi con Hans-Ulrich Obrist, curatore d’arte e direttore artistico delle Serpentine Galleries di Londra, che intervista per Grazia l’architetta messicana Frida Escobedo, che realizza progetti nati dal suo bisogno di comunicare.

E il mondo scoprì le artiste è invece un’inchiesta approfondita sui grandi talenti dimenticati dalla storia. Pittrici e scultrici hanno infatti dovuto lottare e affrontare una moltitudine di ostacoli che non hanno diminuito il loro valore, ma spesso ne hanno cancellato traccia. Storiche dell’arte e curatrici stanno così adottando nuove strategie per restituire loro visibilità, mettendo in atto una vera e propria rivoluzione creativa.

Anche la moda è in linea con il tema portante del giornale: i bijoux americani degli Anni 30 collezionati da Patrizia Sandretto re Rebaudengo saranno abbinati a look liberi e anticonformisti e avranno come sfondo le opere della pittrice Pia Krajewski. 

Sulle pagine della rivista ci sono poi due artisti che vanno oltre le definizioni di genere, lasciando spazio alle loro visioni: si parla di arte e natura con Jota Mombaça e di linguaggi e inclusione con Diana Anselmo.  

Anche il rapporto tra arte cinema è strettissimo: il grande schermo ha raccontato le vite e il tormento dei geni della pittura e Paola Malanga, direttrice artistica della Festa del Cinema di Roma, ha scelto per Grazia le pellicole da non perdere.

Nella sezione dedicata alla cultura, con la collaborazione della Fondazione Sandretto re Rebaudengo, vengono spiegati i percorsi artistici formativi e segnalate le 10 mostre dell’inverno da non perdere che guidano i lettori e le lettrici in un viaggio di linguaggi diversi.

Infine uno spazio è dedicato anche alle eccellenze mediche al servizio della salute delle donne della Fondazione IEO-MONZINO ETS, di cui Patrizia Sandretto Re Rebaudengo è presidente. A parlare delle conquiste nelle terapie e nella prevenzione decisive per le pazienti sono la specialista di senologia Viviana Galimberti e la cardiologa Daniela Trabattoni.