Da Angela Merkel a Sanna Marin: ragazze, il potere non è cattivo
di PAOLA PEDUZZI
Se potessimo scegliere un leader che ha saputo gestire l’emergenza del coronavirus nel modo migliore, probabilmente indicheremmo un nome di donna. Angela Merkel in Germania, con le conferenze stampa in cui la sua formazione da scienziata rendeva le sue parole potenti e rassicuranti, o Jacinda Ardern in Nuova Zelanda, con quel suo «Siate uniti, siate gentili» che vorremmo scritto sulle magliette, o la scozzese Nicola Sturgeon, con il suo approccio lontano anni luce dalle scelte di Boris Johnson in Inghilterra, e poi tutte le altre: la presidente Tsai Ing-wen a Taiwan, la premier Sanna Marin in Finlandia, Erna Solberg in Norvegia, Katrín Jakobsdóttir in Islanda. Una commentatrice della rivista americana Forbes, elogiando la capacità di queste leader di maneggiare la pandemia, ha detto: «È come se le loro braccia uscissero dallo schermo in cui le vediamo e ci abbracciassero con affetto e dolcezza».
Il fattore donna ha fatto scrivere fiumi di analisi sulle caratteristiche della leadership femminile: capace di gestire il rischio meglio degli uomini, più premurosa, più pietosa anche. C’è chi sostiene che se nel 2008, quando ci fu lo shock finanziario che ha avviato la crisi economica, al posto di Lehman Brothers, la banca “Fratelli Lehman” che per prima collassò in America portandosi dietro tutte le altre, ci fosse stata una Lehman Sisters, le “Sorelle Lehman”, probabilmente le cose sarebbero andate meglio. Ma il punto è: non c’era una Lehman Sisters. Così come oggi, secondo una statistica del sito americano Axios, dei 195 Paesi membri delle Nazioni Unite soltanto 14 sono guidati da donne. Le leader possono forse essere più adatte a gestire una crisi, ma la verità è che non ci arrivano quasi, o molto raramente, a gestire un’emergenza: di solito in quelle posizioni ci sono gli uomini.
Ecco perché più che analizzare come si sono comportate le leader donne nelle crisi - analisi in ogni caso interessanti: le decisioni prese sono un modello per tutti - è importante capire come ci sono arrivate, le donne, a gestire una crisi. Ogni Paese ha la sua storia, tutte le storie parlano di società che hanno iniziato già da tempo a smontare il tabù della donna al potere, o anzi a non considerarlo proprio. Perché la vera uguaglianza si raggiunge, nelle questioni di genere come in molte altre, quando le diversità smettono di essere un discrimine e diventano un elemento da valorizzare. Non siamo tutti uguali, ma possiamo avere le stesse ambizioni, le stesse attese, le stesse possibilità di successo.
Angela Merkel ha fatto scuola e ha persino cambiato il nostro linguaggio: in Europa, il riferimento per le donne in politica era Margaret Thatcher, la Lady di ferro,prima ministra britannica fino al 1990. Oggi la cancelliera tedesca è fonte di ispirazione globale perché ha saputo unire alla brutalità della politica - il suo primo atto per arrivare al potere fu quello di “uccidere” il suo leader, Helmut Kohl - i colori pastello della premura e dell’attenzione, e mentre si chiacchiera sulla sua successione (è al quarto mandato), si dice solo: ora la Germania potrebbe provare l’ebbrezza di un cancelliere uomo. L’8 marzo, Merkel ha definito “rivoluzionario” l’equilibrio trovato tra lavoro e famiglia in molte coppie, ma in realtà in Germania ancora vengono stigmatizzate le “Rabenmutter”, le mamme snaturate che preferiscono la carriera ai loro figli. I pregiudizi sono duri a morire, ma i cambiamenti ci sono stati, soprattutto nell’Est ex comunista. Quali? L’introduzione del salario minimo, le regole di trasparenza imposte alle aziende per spiegare le differenze di salario tra uomo e donna, l’assistenza per i figli da 0 a 12 mesi, anche se dicono che le liste d’attesa siano impossibili e che, nonostante sia previsto il congedo per i padri, soltanto il 36 per cento di loro lo utilizzi.
In Germania, come in Nuova Zelanda, la leadership femminile non è un tabù ma non è nemmeno così diffusa. Jacinda Ardern è alla guida del Partito laburista neozelandese dalle dimissioni del suo capo (era la sua vice), senza particolari rotture, ma nemmeno sensi di colpa. La Nuova Zelanda introdusse il voto delle donne nel 1883 (in Italia, nel 1945, ndr), le donne “kiwi” hanno educato molto bene i figli alla parità e all’integrazione, ma ancora poche lavorano, o per lo più lavorano part time: le ragazze neozelandesi, intervistate sull’effetto che fa avere una premier, di solito rispondono che l’ispirazione c’è, però in politica non lavorerebbero mai, e le donne in Parlamento sono poche.
Una cultura orientata all’integrazione e alcune politiche per agevolare l’affermazione delle donne non sembrano sufficienti per garantire costanza alla leadership femminile: ci vogliono soluzioni di sistema.
In questo i Paesi del Nord europeo sono eccellenza: quando è stata nominata la giovane premier donna alla guida della Finlandia, Sanna Marin, dal nostro Sud si guardava con molti sospiri al fatto che tutti i partiti politici del Paese avessero leader donne. Mentre in Danimarca la premier è Mette Frederiksen, 42 anni. Ma le trasformazioni di sistema, per avvenire, devono riguardare tutti. L’indice del divario di genere che il World Economic Forum pubblica ogni anno, nel 2020 conferma nelle prime dieci posizioni più virtuose quattro Paesi nordici: in testa c’è l’Islanda guidata da Katrín Jakobsdóttir, dove la distanza uomo-donna nel lavoro e nell’accesso all’istruzione viene colmata a un ritmo strepitoso ogni anno e dove il tasso di “empowerment” femminile, l’affermazione in ogni ambito della vita, è il più alto di tutti i Paesi presi in considerazione. Segue a breve distanza la Norvegia, scavalcata proprio dalla Finlandia di Marin, che durante l’emergenza del coronavirus ha offerto il suo contributo con un altro elemento di sistema: la Finlandia è stata la nazione più previdente di tutte, non è rimasta senza materiale sanitario, mentre i suoi esperti facevano simulazioni sulla diffusione del virus che si sono rivelate utili in molte parti del mondo.
Come per le leadership femminili: bisogna essere previdenti, e prendersi tutti la responsabilità dei cambiamenti. Poi, certo, c’è il talento personale, che a volte è anche saper rifiutare i compromessi che non servono.
«Una delle critiche che più mi è stata fatta nel tempo», ha detto la neozelandese Ardern, «è che non sono abbastanza aggressiva, non sono abbastanza assertiva, perché sono empatica e quindi fragile. Mi sono sempre ribellata a questa equazione. Mi rifiuto di credere», ha concluso, «che non si possa essere al tempo stesso compassionevoli e forti».
Articolo pubblicato sul numero 23 di GRAZIA (21 maggio 2020)
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