Mettiamo lo stile al servizio della Terra
La prima a lanciare un grido d’allarme nella moda è stata Vivienne Westwood. La stilista britannica è stata una pioniera dell’ambientalismo e della moda sostenibile, consapevole che l’atto creativo e produttivo nella vita, come nella moda, non può essere disgiunto dall’impegno per il clima. È ciò che fa anche FAO, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura, nel suo progetto dedicato alla moda, “Fashion for Fragile Ecosystems”, ovvero la moda per ecosistemi fragili.
«La FAO può sembrare molto lontana dalla moda. Infatti, spesso dimentichiamo quanto la moda sia legata in realtà all’agricoltura e all’allevamento, ma è proprio da lì che provengono le fibre naturali che utilizziamo per i capi», dice Giorgio Grussu, Mountain Partnership Secretariat della FAO. Sarà lui a coordinare alcuni interventi previsti sul palco istituzionale del Phygital Sustainability Expo®, a Roma, il 5 e 6 giugno, per la Giornata mondiale dell’Ambiente.
La moda vale oltre 2.000 miliardi di dollari all’anno e impiega 300 milioni di persone. Una maglietta di cotone, per essere prodotta, ha bisogno di circa 3.000 litri d’acqua. L’industria tessile contribuisce a quasi il 3 per cento delle emissioni globali di gas a effetto serra. Come opporre una resistenza attiva a questo? Basta comprare meglio e meno? «“Fashion for Fragile Ecosystems” è uno dei progetti della FAO-Mountain Partnership, l’alleanza delle Nazioni Unite che si occupa di sviluppo sostenibile delle regioni montane di tutto il mondo», dice Grussu. Fa parte di un programma più ampio, finanziato dall’Italia, che fornisce assistenza tecnica e finanziaria a comunità di piccoli produttori, per sostenere investimenti e consentire loro di accedere a mercati migliori. Ha già raggiunto oltre 55 mila produttori in 18 Paesi. “Fashion for Fragile Ecosystems” è iniziata nel 2020, durante la pandemia, con una piccola iniziativa pilota e promuove la collaborazione tra stiliste italiane e gruppi di artigiane, che abitano zone tra le più remote del mondo, dalle Ande all’Himalaya.
«Le comunità di artigiane con cui lavoriamo sono custodi di un patrimonio ricchissimo di tradizioni e competenze. Noi abbiamo solo la fortuna di averle incontrate e abbiamo la possibilità di fornire loro gli strumenti di cui hanno bisogno, per far crescere la loro attività», racconta Grussu. «La stilista italiana incontra le artigiane, con cui crea una collezione contemporanea che sposa le loro tecniche e i disegni tradizionali e la presenta al mercato, rendendo esplicita la collaborazione e il loro contributo. Successivamente, alle artigiane viene data la possibilità di continuare a produrre quei capi», spiega Grussu.
Così ha fatto Marla Chanta, artigiana di 45 anni di una regione del Guatemala. «L’abilità delle donne guatemalteche è diversa da qualsiasi cosa abbia mai visto», dice la stilista Vivia Ferragamo. «La loro arte non è solo tecnica, è la loro tradizione intrecciata in ogni capo. Collaborare con la FAO e la Mountain Partnership è stata un’incredibile opportunità per aiutarle a condividere il loro meraviglioso lavoro, creando moda bella e che fa bene». «Con i soldi extra guadagnati possiamo mandare a scuola i bambini, ma anche dare possibilità in più alle nostre famiglie», spiega Zhamilya, artigiana del Kirghizistan. La stilista Stella Jean ha lavorato al suo fianco. «La collaborazione si basa su uno scambio paritario di competenze e conoscenze, che unisce l’artigianato tradizionale al design italiano», dice Jean. «Volevamo dimostrare come il patrimonio culturale potesse essere un motore di sviluppo. Con questa partnership le donne stanno costruendo la propria autonomia».
Testi di Letizia Magnani
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FAO-Mirbek-Kadraliev
Charlie Quezada - Cohete Studio
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