Ha superato la boa dei 50 anni, ma lo spirito resta quello del ragazzo di Boston che divideva il divano in un monolocale con un collega sconosciuto come lui, Ben Affleck, sognando Hollywood.
E quel sogno si è più che avverato: dopo un Oscar e un curriculum che vanta la collaborazione con cineasti come Martin Scorsese e Steven Spielberg, l'attore Matt Damon oggi è una star che non ha neanche bisogno di definirsi tale. Anzi, sembra fare il contrario.
Mantiene un profilo basso, passa il tempo con le quattro figlie ed è sposato da 16 anni con la stessa donna, l'argentina Luciana Barroso. Eppure, alla vigilia della Mostra del cinema di Venezia, era tra i più attesi per The Last Duel, da lui scritto con l'amico Ben Affleck e diretto da Ridley Scott.
Il "divo della porta accanto", come lo chiamano, non esita a mostrarsi vulnerabile e commosso per il ritorno a una parvenza di normalità dopo mesi di Covid: «Una volta in sala, dopo la pandemia, mi sono emozionato come fosse stata la prima volta», dice. «E in un certo senso lo era: trovarmi di nuovo davanti al grande schermo con mille persone, dopo un anno e mezzo vissuto in modo non umano, senza contatti con gli altri, è stato forte».
L'emozione più profonda è stata al Festival di Cannes, dove ha presentato La ragazza di Stillwater (nelle sale): la vicenda è ambientata in Francia e Matt è un padre conservatore che va in soccorso della figlia, accusata di aver ucciso una ragazza a cui era molto legata. Il film è liberamente ispirato alla vicenda di Amanda Knox, l'americana coinvolta nelle indagini sull'omicidio di Meredith Kercher avvenuto nel 1997 a Perugia. Knox ha criticato duramente la pellicola, mentre Damon e il regista, Tom McCarthy, hanno respinto le accuse, sostenendo che la storia vada in altre direzioni.
Al cinema interpreta Bill Baker, un operaio americano dell'industria petrolifera che si sente straniero in Europa. Avverte mai la stessa sensazione?
«A dire il vero, mi sento un po' europeo di adozione. È dagli Anni 90 che lavoro in questo continente e mi sono sempre trovato bene».
Com'è stato interpretare un convinto sostenitore dell'ex presidente Donald Trump?
«Una sfida, perché non solo ai tempi non ho votato Trump, ma tuttora non mi piacciono le derive nazionalistiche che si stanno diffondendo nel mondo. Già negli anni del presidente George W. Bush discutevamo molto, tra amici e colleghi, della politica estera americana e di certe decisioni prese. Per interpretare Bill Baker ho dovuto dimenticare tutto questo. È anche vero che ho scelto di fare questo lavoro proprio per poter vivere vite molto distanti dalla mia: io e Bill non andiamo d’accordo politicamente, ma questo film mi ha fatto riflettere su quanto sia una certa politica rabbiosa a dividerci e a creare crepe, perché di fondo siamo più simili di quanto crediamo».
Ciò che ci unisce è più forte di ciò che ci divide?
«Ne sono convinto, Bill ne è l'esempio. Un uomo complesso, un padre che lotta per riscattare sua figlia, ingiustamente arrestata, e combatte in prima linea per lei. Da padre mi è stato facile immedesimarmi in quest'aspetto e penso che i genitori di ogni parte del mondo che guarderanno il film penseranno lo stesso, anche se hanno idee politiche diverse».
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Foto di Marc Royoce
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