Lucia Pica: "La mia vulnerabilità è la mia forza"

Incontro Lucia Pica a Napoli, in una libreria storica di Port’Alba, la stradina dei libri di seconda mano. Ci ospitano Monica e Fabio, ci offrono acqua, caffè e silenzio. Lucia è come il suo nome: tutta luce, e come i suoi lavori sul trucco, e come la città che le ha dato le origini e dalla quale è bello partire e alla quale è bello tornare. «Se parliamo anche soltanto della luce di Napoli, quando vivi a Londra 23 anni: torni e vedi la luce arancione e rosa del pomeriggio. Io, quando torno, sento anche la densità dell’aria che mi porta direttamente ai pomeriggi d’estate: sono molto romantica. L’altra cosa che mi fa impazzire è che solo facendo questo tratto di strada per raggiungerti ho catturato tante conversazioni tra le persone».
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Napoli è un luogo senza privacy.
«Quando sono andata a Londra ho pensato proprio a questo: metto il pantalone giallo del pigiama e nessuno mi giudica. Però dopo, crescendo, ti manca il senso di comunità che puoi trovare qui: a Londra non conosci nemmeno il vicino di casa».
E nella tua formazione artistica c’è proprio una vicina di casa.
«Sì! Quando avevo 10 anni andavo dalla vicina di casa che aveva un cassetto pieno di trucchi: mi truccavo di nascosto poi, prima di uscire, mi struccavo».
Già allora avevi in mente questa carriera?
«Nooo. Non sapevo proprio che cosa fosse una carriera. Ero da sempre interessatissima alla moda, fin da piccola, ma volevo studiare Conservazione dei beni culturali. Uscivano le schede degli Impressionisti in allegato con una rivista e io le collezionavo, ma non mi consideravo creativa».
L’hai scoperto a Londra, anni dopo.
«Sono partita a 19 anni, dopo il diploma magistrale, come tutti per fare un’esperienza. Una mia amica mi disse: “Tu ti trucchi sempre e così bene”, e mi trovò un corso. Lo frequentavo solo da un mese quando l’insegnante disse: “Tu hai qualcosa di speciale: noi abbiamo un’agenzia, ti mettiamo sul set di un film a fare un’esperienza di lavoro”. Così sono finita su un set di James Bond. Ogni volta che incontravo una truccatrice le chiedevo se la potevo aiutare».
Raccontaci quando hai fatto la stalker di Charlotte Tilbury, una delle make-up artist più stimate del mondo.
«In maniera abbastanza naïf ho chiamato la sua agente per un anno, lei mi diceva: “Richiami”, e io lo facevo davvero. Lei poi è diventata una delle donne decisive della mia carriera, con Charlotte. Si chiama Ayesha Arefin. Dopo un anno una sera ero sull’autobus e mi ha chiamata lei, ha detto: “Sei libera domani?” E io ho detto sì senza neanche doverci pensare, ero pronta a perdere il mio lavoro, avrei fatto di tutto. Mi vengono ancora i brividi. Da lì Charlotte mi ha fatta entrare nel suo team poi, dopo due anni che l’assistevo nelle sfilate, mi ha presa come prima assistente».
Poi?
«Dopo otto anni sono arrivata a essere la direttrice creativa di Chanel. In sei anni ho creato svariate collezioni, tutte le campagne beauty, le sfilate e le campagne moda. Ora collaboro con Byredo, sono già tre anni: ne curo l’immagine e la parte make-up».
Di che cosa ha bisogno la tua creatività?
«Di tutto quello che è intorno a me: una mostra, una cartaccia per strada, le conversazioni, ma a volte anche la noia. Ho bisogno di annoiarmi perché scatta quella cosa in me per cui devo scappare da questa situazione di stasi e mi vengono in mente tantissime cose».
E una collezione come si costruisce?
«È un misto tra ispirazione astratta e metodica. Io nelle collezioni provo sempre a mettere qualcosa di personale. Che sia un’emozione o una parte della mia storia. Ho sempre riscontrato che le scelte più personali hanno il potere di trasportare le vibrazioni più lontano e toccare di più le persone».
Qual è l’elemento che finisce più spesso nelle tue collezioni?
«La vulnerabilità: è il momento più intimo, quello in cui ti mostri, è il luogo in cui puoi innamorarti, è il punto d’incontro. Perché mostrando la vulnerabilità riusciamo a creare dei rapporti più profondi».
Fammi un esempio.
«Guarda il mio angioma. Quando ero piccola volevo essere tutta bianca, non volevo essere rossa e bianca. Dicevo nelle mie preghiere: “Mi fai svegliare tutta bianca, Gesù?”. Ma poi, grazie ai miei fratelli che mi hanno difesa, i miei tre moschettieri, e grazie alle persone che ho incontrato nella vita, ho preso una così grande confidenza con questa parte di me, che ormai incontro persone che mi dicono: “Lo sai che non me ne ero accorta?”. Questa mano va sul viso delle persone: dunque la mia vulnerabilità diventa un momento d’incontro».
E come confluisce tutto questo in un lavoro sul trucco?
«Per esempio ho fatto una collezione sul rosso. Con un rossetto sulle guance mi sento come se mi fossi emozionata».
Quindi il trucco rimanda a qualcos’altro?
«Quando arrossisci la pelle produce un colore, se piangi gli occhi si fanno rossi. Con il trucco evoco un ricordo che porta con sé un’emozione. Hai presente la mia matita per occhi rossa? Era rivoluzionaria come scelta: ho dovuto convincere un sacco di persone, giornalisti e consumatori».

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Preferisci lo specchio di Narciso che ci si riflette, o quello di Alice che si attraversa?
«Entrambi. Lo specchio ti aiuta a trattarti bene ovvero sentirti meglio. Quando tu ti sei presa cura di te, quando ti sei informata, ti sei nutrita, hai fatto il tuo yoga, parti da una buona base che ti piace e arriva il trucco che è un bel mezzo per avere un momento con te stessa. Questi 10 o 15 minuti li devi vedere non come: “Sono orribile, mi devo coprire” bensì “Che bello ora mi metto questa matita rossa sugli occhi”. Credo nel trucco come un momento con te stessa e come forma di espressione, non come forma di cancellazione».
Qual è la forma di cancellazione?
«In Rete ci sono tutorial in cui si usa una quantità di trucco sproporzionata: lì sotto non ti vediamo più. Io credo nella trasparenza e nel rispetto dei tratti individuali. Quando io trucco un’attrice o mia madre, ho un’idea: ma quando inizio a lavorare su quel viso prendo una strada diversa. Non ti voglio fare il naso diverso da quello che hai. Dobbiamo sempre pensare alla perfezione della bellezza canonica o possiamo vederci tutti in maniera più bella?».
Chirurgia estetica sì o no?
«Ognuno fa quello che lo fa stare bene. Quello che non è salutare è dettare una legge esterna a noi, che crea insicurezza nelle persone. Io ti posso dare strumenti con cui abbellirti divertendoti senza pensare “devo” essere in questo modo».
Il contrario del “devo essere” è la libera scelta.
«Esatto, parliamo un momento della scelta, una parola che mi sta davvero a cuore: avviene ogni volta attorno a qualcosa che ti rende vulnerabile. E la scelta è non essere la vittima di questa cosa. Mi ricordo bene che la scelta va fatta regolarmente, quando ero più piccola passare da un maglione con le maniche lunghe a una maglietta con le maniche corte era il momento della scelta, quello in cui pensavo: “Sarò vista, forse giudicata”. Quindi c’era un momento in cui sceglievo di cavalcare la mia vulnerabilità. Mi è accaduto anche qui, in questo numero di Grazia, guardando le foto di copertina. All’inizio ne avevo scelta una un poco più... Come si dice... Impercettibile. Poi, con la direttrice Silvia Grilli mi sono concessa quella in cui sono più esposta: una in cui cavalco l’emozione rispetto alla mia vulnerabilità».
Qual è la cosa più faticosa del tuo lavoro?
«Si svolge in un ambiente che, causa ego o insicurezza, può ledere la sensibilità delle altre persone. È competitivo e gioca sugli altri. C’è stato un periodo in cui lo sentivo tanto. Adesso che ho avuto tante esperienze che mi hanno insegnato come gestire la paura non lo sento più».
La cosa più difficile?
«È l’abbrivio. Una volta che inizio so che trovo un modo».
La cosa più bella?
«L’energia. C’è un’energia che mi rende ancora e ancora e ancora felice».
foto di ANTONI CIUFO
styling di SALOMÉ ROUQUET
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