«Le parole della libertà»: l'editoriale di Silvia Grilli

Le parole contano. Il governo dell’Argentina propone l’eliminazione del femminicidio dal Codice penale perché sostiene che nessuna vita valga più di un’altra e quel reato metterebbe metà della popolazione contro l’altra. Per i ministri argentini quella parola, “femminicidio”, è sovversiva, un’arma della cultura del politicamente corretto, e vogliono cancellarla.
Il governo italiano, invece, dà il via libera al reato di femminicidio come fatto autonomo da punire con il massimo della pena: l’ergastolo. Non c’è dubbio che l’Italia abbia ragione: riconosce che le donne vengano uccise in quanto donne.
Quel delitto è l’atto finale della discriminazione e dell’odio: togliere la vita per reprimere i diritti, la libertà, la personalità, la scelta di dire basta.
Il governo dell’Argentina sbaglia. Le parole hanno un senso. Il “femminicidio” non è assimilabile all’omicidio. Lo dimostra il fatto che “maschicidio”, cioè provocare la morte di un uomo perché è uomo, non esiste: non se ne trovano tracce.
Appena si è insediato, il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, è entrato a gamba tesa contro quello che viene sommariamente definito “politicamente corretto”.
Ha cancellato con un ordine esecutivo tutte le politiche dell’inclusione nate per garantire pari possibilità alle persone, indipendentemente dall’origine, dal genere e dall’orientamento sessuale. Ha eliminato tutti i programmi per la parità donna-uomo, contro le discriminazioni, il razzismo e le ingiustizie sociali.
Per rimuovere i diritti ha ordinato anche un colpo di spugna sulle parole. Così è stato chiesto che nei documenti governativi, nei siti pubblici, nei programmi scolastici vengano limitati, usati con cautela o evitati termini come: “donne”, “femmina”, “femminista”, “femminismo”, “vittima”, “trauma”, “donne sottorappresentate”, “pari opportunità”, “privilegio”, “attivista”, “razzismo”, “sesso”, “sessualità”, “discriminazione”, “diseguaglianza”, “diversità di genere”, “discorsi di odio”, “inclusione”, “LGBTQ”, “pregiudizio”.
Le parole “uomo” e “maschio”, invece, non sono state cancellate.
Trump sostiene che le politiche per l’integrazione abbiano cancellato il merito e innalzato gli incapaci, implicitamente sostenendo che le donne, le persone di colore e altri gruppi marginalizzati siano inetti.
In questi anni ho sentito molta gente dire: «Non si può più dire niente», «il politicamente corretto ci sta mandando in rovina», «bisogna chiamare le cose con il loro nome». Negli Stati Uniti d’America Donald Trump ha vinto anche per questo. Ma nel nome dell’anti politicamente corretto si restringe il pensiero, si limita la democrazia.
Brandendo la bandiera della battaglia contro le parole ipocrite, il premier argentino Javier Milei ha fatto pubblicare una delibera sulla Gazzetta ufficiale in cui si riferisce alle persone con disabilità con termini come “idiota”, “imbecille”, “gravemente handicappato mentale”.
L’8 marzo, giornata internazionale dei diritti delle donne, Checco Zalone ha monopolizzato la discussione sui social media con un video in cui cantava l’arrivo del divieto di patriarcato nella località immaginaria di San Masculo. Zalone è eccellente nel fare satira sociale, ma tanti sono stati gli uomini che hanno commentato: «Bravo Checco, difendici dalle femministe, perché siamo nella dittatura, non si può più dire niente».
Una donna che esprime il suo pensiero è sempre stata considerata una provocazione. Se le parole della parità vengono considerate sovversive, noi saremo sovversive per non accodarci al peggio nel truce nuovo mondo.
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