«Le ostagge della scrivania accanto»: l'editoriale di Silvia Grilli
Sento molti in questi giorni ripetere l'invocazione di Papa Leone XIV per una «pace disarmata e disarmante» o per la liberazione degli ostaggi, prigionieri di terroristi feroci. La pace ricomincia», ha detto il pontefice, «da ognuno di noi, dal modo in cui guardiamo gli altri, ascoltiamo gli altri, parliamo degli altri».
Il male non è solo quello a noi lontano. Ci sono qui altri ostaggi, anzi ostagge (declino al femminile, anche se la grammatica non lo consente) che noi ignoriamo, perché non ci sembra così grave, perché non vogliamo immischiarci, perché non ci conviene, perché si è sempre fatto così. Non facciamola tanto lunga.
Mi riferisco in particolare a una vicenda di cronaca che mi ha colpita di recente. Emanuele Michieletti, direttore di un reparto dell’ospedale Guglielmo Da Saliceto di Piacenza, convocava nel suo studio con l’altoparlante dottoresse, infermiere e ausiliare. Poi chiudeva la porta e le violentava. L’abuso di potere era sistematico. Tutti sapevano, nessuno diceva niente, le vittime vivevano nella prostrazione e nel terrore.
Finché Paola Bardasi, direttrice dell’Azienda Sanitaria Locale a cui si era rivolta una dottoressa raccontando che cosa accadeva, ha incoraggiato e sostenuto le denunce. La polizia ha piazzato le telecamere: hanno filmato 32 violenze in 45 giorni.
Che cosa spinge un intero reparto a voltarsi dall’altra parte? Sappiamo che cosa induce le vittime a tacere: vergogna, paura, frustrazione, posizione d’inferiorità psicologica davanti a un dirigente, timore di perdere il lavoro. Ma gli altri medici? Se è vero che incoraggiavano le gesta del collega con suggerimenti, ammiccamenti e battute, come può il male radicarsi così tanto in un ambiente con la complicità di tutti?
Ricordo un giornale dove ho lavorato. La segretaria del direttore convocava le stagiste nello studio del capo. Lei conosceva il motivo. Quando la giovane giornalista di turno tornava alla scrivania, anche tutti i colleghi immaginavano che cosa fosse successo. Gli sguardi erano abbassati, nessuno diceva niente, solo i superiori commentavano ridacchiando.
Tutti sapevano dentro e fuori dalla redazione. Nessuno ha mai denunciato. Ricordo un’altra redazione: le molestie del direttore venivano derubricate dagli altri capiredattori, tutti maschi, ad atteggiamenti da caserma. Quando protestai perché non era normale che fosse normale, mi risposero: «Eh, ma lui non ci sa proprio fare!», come se fosse un corteggiatore maldestro invece di un violentatore.
Perché gli ambienti di lavoro possono diventare così feroci senza che nessuno per anni (all’ospedale di Piacenza pare che le molestie andassero avanti da 15 anni) dica niente? Ho visto in questi giorni il filmato di una sposa bambina trascinata con la forza alle nozze con uno sposo che non voleva. Urlava, come gli animali che vanno al macello sapendo di dover morire, tra gli sguardi e l’indifferenza degli uomini che la stavano prelevando con la forza.
Sento già l’obiezione che non si possono paragonare gli ostaggi di guerra e le spose bambine di culture misogine alle dottoresse di un Paese occidentale che avrebbero tutti gli strumenti per interrompere gli abusi. Ma io non sono qui a sindacare il comportamento delle vittime, persone in posizioni di potere impari. Non mi concentro neppure sul primario o sui direttori di giornali dei tempi che furono.
Parlo di tutti gli altri che vedono, ma fanno finta di non vedere. Bravi cristiani che magari non vanno tutte le domeniche a messa, però non farebbero male a una mosca. A una mosca no, ma a una donna sì.
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