«La felicità degli altri»: l'editoriale di Silvia Grilli

Ha detto di non avere un vero motivo per ucciderli. Il 17enne della provincia di Milano che, dopo la festa di compleanno del padre, ha sterminato l’intera famiglia semplicemente si sentiva «un corpo estraneo».
«Non so perché l’ho fatto», aveva detto anche l’aspirante rapper Moussa Sangare, che ha ucciso a coltellate la povera Sharon Verzeni, in provincia di Bergamo.
Sono crimini che ci colpiscono perché mettono radici nelle nostre più profonde paure: nostro figlio adolescente, il nostro bambino, che non ci parla più e ci guarda con odio. Lo sconosciuto che ci accoltella per strada apparentemente senza una ragione. Ma i moventi ci sono sempre. E non è la follia.
Sangare era libero, nessuno aveva fatto nulla per tenerlo fermo, nonostante i reati da codice rosso di cui si era già macchiato. Aveva già tentato di uccidere la sorella, era violento con la madre, aveva provato a far saltare in aria la cucina, mimato l’omicidio di Verzeni su una sagoma di cartone che teneva in casa, provato l’accoltellamento sulla statua di una donna nel parco, infine era uscito di casa con quattro coltelli. I moventi esistono sempre. Odio per le donne. Odio per la felicità altrui: «Ho scelto Sharon dopo averla vista guardare le stelle, mentre passeggiava con gli auricolari», ha detto l’assassino. L’immagine di una donna serena era intollerabile per un emarginato infelice come lui.
«Durante l’interrogatorio ci ha detto di sentirsi altro rispetto al mondo», ha raccontato la procuratrice Sabrina Ditaranto, riferendosi al ragazzo stragista di Paderno Dugnano. La magistrata ha descritto quella povera famiglia straziata come più che normale, «una famiglia molto felice». Una felicità da cui l’assassino si sentiva escluso.
Sembrano così diversi questi due casi, questi due assassini, ma a me sembrano così simili. Il 17enne che la notte dopo la festa di compleanno del padre scende in cucina a cercare il coltello per uccidere i familiari, colpisce con decine di fendenti il fratello di 12 anni mentre dorme, poi la mamma e il babbo, li ha massacrati perché sembravano felici. Mentre l’assassino no. «Mi sentivo solo in mezzo agli altri», ha detto pacatamente.
L’adolescente di Paderno Dugnano si sentiva ingiustamente depredato della gioia che era riservata agli altri. Proprio come Moussa Sangare o come Said Mechaquat, che uccise a Torino Stefano Leo, che non conosceva neppure. «Volevo ammazzare un italiano contento», disse Mechaquat. Si chiama invidia, invidia per la felicità degli altri. La proviamo tutti, chi più o chi meno, per tutta la vita quando vediamo qualcuno che ci sembra stare meglio di noi. Ma non andiamo lì ad accoltellarlo. E invece: «Li ho uccisi perché erano felici», disse Antonio De Marco, lo studente che confessò di aver massacrato a Lecce due fidanzati che proprio quel giorno erano andati a vivere insieme. «Ho ammazzato Daniele ed Eleonora perché volevo vendicarmi: perché la mia vita doveva essere così triste e quella degli altri così allegra?», aveva scritto.
Ma per nessuno esiste una garanzia alla felicità. E, a volte, basterebbe riconoscerla per capire che la stiamo vivendo.
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