James Blunt: "Ascolteremo una grande musica"


di Paola Jacobbi
James Blunt ha una biografia epica. Nato 46 anni fa in una famiglia di militari, ha servito nell’esercito inglese durante la guerra del Kosovo, poi si è messo a fare il cantante e ha venduto 23 milioni di dischi. Ha anche sposato Sofia Wellesley, un’aristocratica e bella signora con cui ha avuto due figli. La madrina del primogenito è stata Carrie Fisher, la principessa Leia del film Guerre stellari. E al matrimonio di un principe vero (Harry di Sussex) James e Sofia erano tra i pochi, selezionati invitati.
Ma la mondanità d’alto bordo non ha mai distratto Blunt dalla sua passione per la musica. E dalla sua capacità di mettersi a nudo in canzoni che, anche se avete una scarpa al posto del cuore, prima o poi vi trafiggono nel punto giusto, quello che fa venire il nodo alla gola. Sentimentale, zuccheroso? Non proprio: dai suoi profili social (e anche da questa intervista) si capisce che è parecchio spiritoso e autoironico.
Ma è anche sempre molto sincero e, nelle sue canzoni, racconta cose vere, pezzi della sua vita. Per esempio, in Once Upon a Mind, l’ultimo album di James, c’è una canzone intitolata Monsters, dedicata al padre, il colonnello Charles Blount (il vero cognome di famiglia), già ufficiale di Cavalleria e pilota di elicotteri. Di recente, Charles si è ammalato gravemente e, mentre era in attesa del trapianto di fegato, ha partecipato a un video commovente del figlio. James piange in primo piano (chi l’ha detto che i soldati non piangono?) e intreccia le mani con quelle del papà.
«Ora sta meglio, ma è immunodepresso, e non ci vediamo da un bel po’», racconta James. Un’altra canzone dell’album è The Greatest, scritta per dedicarla ai suoi figli ma poi trasformata in un inno di ringraziamento a chi, durante la pandemia, ha salvato vite e lavorato allo stremo, in prima linea. Non solo: Blunt ha deciso di devolvere tutti i profitti del 2020 al servizio sanitario nazionale inglese.
Nel video di The Greatest si vedono immagini che ci siamo purtroppo abituati a vivere in questi mesi, identiche in tutto il mondo: gli ospedali, le mascherine, le code, le lacrime, i tentativi di farsi coraggio. Come è nato?
«La canzone era dedicata ai giovani, per invitarli a reagire alle sfide che gli adulti hanno messo loro davanti, in questo mondo pieno di difficoltà che li aspetta. Ma poi, guardando giorno dopo giorno medici e infermieri che ovunque si battevano per salvare le vite altrui mettendo le proprie in pericolo, mi è stato chiaro che avrei dovuto regalarla a loro perché sono i più grandi, The Greatest. Abbiamo chiesto al regista Jacob Wise di radunare le immagini della pandemia, in particolare, come avrete visto, dall’Italia, uno dei Paesi più colpiti e uno dei Paesi a cui io sono più affezionato. La parte in cui canto l’ho filmata da solo, sul tetto di casa, con il mio iPhone».
Pensa che quando tutto questo sarà finito, quando ci sarà un vaccino, tornerà tutto come prima o ci saranno dei cambiamenti, per esempio nel mondo della musica?
«Il nostro spirito, le nostre relazioni, la nostra umanità e la nostra economia, tutto è stato sottoposto a una dura prova. E da questa esperienza potrebbe nascere anche della grande musica, che parlerà al cuore di tutti quelli che hanno vissuto questo momento».
Lo vede come un trauma collettivo che può ispirare positivamente?
«Certamente. Quando siamo messi alla prova, tutti diventiamo più creativi».
Che cosa ha fatto durante la quarantena?
«Mi sono messo a ripulire un bosco da mucchi di legno marcio, un lavoro che avrei dovuto fare già 15 anni fa. Penso che mi ci vorranno almeno quattro mesi per finire, come minimo! Mentre lavoro, ascolto molta musica, solo pezzi inediti, mai sentiti prima. Ascolto a caso senza avere idea di che cosa sia, è tutto nuovo per me e mi sento felice e fortunato di poterlo fare».
Lei è abituato a tour e concerti. Come pensa che sopravvivremo nei prossimi mesi alle nuove regole di distanziamento sociale?
«Difficile dirlo adesso. Per esempio, il mio tour è stato cancellato al momento e rimandato al 2021, ma chissà. Credo che dovremo prima sconfiggere il virus».
Con che cosa sostituiremo i festival e i grandi show?
«Non si possono sostituire. È una grossa perdita, solo la musica tiene insieme la gente a quel modo».
C’è chi suggerisce che i drive-in, locali pubblici in cui si può ricevere il servizio rimanendo in automobile, potrebbero essere una soluzione.
«Se a un concerto arrivano 10 mila persone a coppie significa che avremmo bisogno di un parcheggio per 5 mila automobili. Però, sembra un’idea divertente e magari vale la pena provarci. Sperando che quelli che hanno parcheggiato in fondo riescano a sentire».
Non ci resta che lo streaming.
«Possiamo guardare dei concerti su uno schermo, ma non potrà mai uguagliare l’immersione nell’esperienza fisica. Però, in questo momento, è tutto quello che abbiamo ed è anche un modo per restare in contatto con gli altri, quindi ci stiamo adattando».
Vuol dire che sta pensando di fare un concerto in streaming?
«Non le pare che la gente abbia già sofferto abbastanza?».
Articolo pubblicato sul numero 24 di GRAZIA (28 maggio 2020)
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