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«Il cibo e la fame di amore»: l’editoriale di Silvia Grilli

«Il cibo e la fame di amore»: l'editoriale di Silvia Grilli

foto di Silvia Grilli Silvia Grilli — 6 Aprile 2023
Il nuovo numero di Grazia è ora in edicola e su app. Ecco l'editoriale della Direttrice Silvia Grilli
Silvia Grilli editoriale Grazia

Dai 18 ai 30 anni ho sofferto di disturbi alimentari. Durante le mie crisi ingerivo qualsiasi cosa, svuotando di nascosto credenza e frigorifero. Alle abbuffate facevo seguire giorni di digiuno, ma il cibo divorato o respinto era sempre al centro dei miei pensieri.

Quando studiavo a Parigi, nei fine settimana trascorsi da sola in casa perdevo il controllo di quello che stavo mangiando. Finita l’overdose, mi vergognavo enormemente di ciò che avevo fatto. Non mi curò un medico, ma l’amore.

La mia era una malattia della solitudine. Quando la solitudine tornava, stavo di nuovo male. Ricordo una notte da studentessa a Venezia, quando mangiai così tanto da perdere quasi i sensi e cadere dalle scale. A Milano, nei miei primi anni da giornalista, la mia infelicità del sabato sera era colmata da assunzioni incontrollate di grandi quantità di cibo. L’overdose mi faceva chiudere gli occhi, arrivava il buio e smettevo di soffrire.

Ho la forza di scrivere tutto questo solo perché mia madre non c’è più. Non le avevo mai confessato quello che mi accadeva. Non so se ne sia mai accorta, quando a casa mi alzavo nel mezzo della notte per sgombrare la credenza. Forse sì, ma non me lo ha mai detto.

La mia è stata una malattia dell’anima durata 12 anni: bassa autostima, paura di non farcela, estremo isolamento. Ancora oggi, quando ho la tentazione di abbuffarmi senza ritegno, mi salva riprovare la nausea di quella vergogna e mi fermo.

Si parla tanto di anoressia, poco di “binge eating” (il disturbo di cui soffrivo io) e bulimia, ma i disturbi alimentari hanno molte facce.

In Italia ne soffrono circa 5 milioni di persone, tra i 14 e i 25 anni. Più del 90 per cento sono ragazze. Con la pandemia i casi sono aumentati e l’età si è abbassata: la malattia comincia anche alle elementari. Con circa 4.000 morti l’anno, è la seconda causa di decesso tra i giovani in Italia dopo gli incidenti stradali. Nei giorni scorsi è stato presentato al Senato un disegno di legge per riconoscere i disturbi alimentari come patologia sociale, prevenirli e curarli, ma anche punire chi istiga a pratiche che li provocano.

Rendersi conto che siano una malattia sociale è un passo importante. Punire chi induce questi disturbi, come nel caso di allenatori che infieriscono con le privazioni per garantire le prestazioni sportive delle ginnaste, può certamente essere un deterrente. Però io non credo che sanzionare sia il modo migliore per fermare queste patologie nervose.

Sono anni che si cercano i responsabili di disturbi alimentari, che purtroppo vengono identificati solo con l’anoressia, dimenticando il resto. Prima erano considerati colpevoli i genitori, poi le passerelle della moda, quindi le pagine dei giornali di stile, oggi si punta il dito contro i social media. Ma non si diventa anoressici o bulimici perché si è visto un profilo su Instagram.

Tra l’altro molti dei siti e delle chat in cui si esalta, per esempio, l’estrema magrezza sono creati da ragazze e ragazzi a loro volta malati.

In realtà una patologia nervosa è qualcosa di molto più complesso di una generica emulazione. Più che di colpevoli, queste ragazze e ragazzi avrebbero bisogno di sostegno, di un’educazione al rapporto con il cibo che parta dalla famiglia e dalla scuola. E bisognerebbe migliorare l’accesso alle cure, inserendo i disturbi alimentari nei livelli essenziali di assistenza del Servizio Sanitario Nazionale.

Di anoressia e bulimia si muore, ma prima bisogna arrivare ad ammetterle a se stessi e curarle. Conta più che punire eventuali responsabili. Sempre che ci siano.

© Riproduzione riservata

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