«I violentatori della Casa Bianca»: l'editoriale di Silvia Grilli
È stato atroce lo spettacolo del presidente Volodymyr Zelensky pestato nello Studio Ovale da Donald Trump è dal suo vice J.D. Vance. Dalla Casa Bianca è andata in onda la lapidazione di un uomo che da tre anni difende il suo Paese.
In qualsiasi modo la pensiate sulla guerra all’Ucraina (persino se ritenete che Zelensky ci abbia fatto spendere troppo denaro, l’abbia tirata troppo per le lunghe, debba arrendersi immediatamente) non potete avere gioito davanti alla forza bruta dei due bulli al potere che si sono dati man forte l’uno con l’altro, spalleggiati da giornalisti zelanti che godevano delle torture inflitte alla vittima da parte dei loro padroni.
Li avete visti Trump e Vance? Non erano molto diversi dai mariti violenti che picchiano le mogli per non aver chiesto scusa, mentre cercavano di difendersi dalle loro botte. Non erano differenti da chi infierisce sulle vittime di stupro negli interrogatori: «Com’eri vestita? Avevi bevuto? Hai adescato tu il tuo violentatore? Perché non hai usato i denti?». Non erano altro dai bulli che dopo la scuola ti massacrano di botte perché studi o perché sei gay o perché semplicemente esisti.
«Ringrazia», ordinano Vance e Trump al piccolo presidente ucraino. Zelensky non ha fatto altro che ringraziare da tre anni: «Ho ringraziato», ripete. «Chiedi scusa», insistono i lupi, mentre lui siede a braccia conserte, il volto terreo che tuttavia mantiene la gentilezza umile dei forti. Non c’è niente di cui chiedere perdono per essersi difeso da un aggressore. Ma i due teppisti vogliono che si pieghi, ammetta che sono loro i più forti.
Trump e Vance usano contro Zelensky tutte le armi della violenza psicologica, in un crescendo di annientamento: le critiche, la derisione, gli insulti, le minacce. Si appigliano alla manipolazione, presentando alla vittima false informazioni per farla dubitare della sua stessa memoria. Lo interrompono continuamente: «Hai già parlato troppo». E giù fendenti. Quello che resterà nella storia sarà un Trump con la bocca deformata dalla rabbia e l’indice puntato. Lo abbiamo visto tutti.
«La mancanza di rispetto spinge alla mancanza di rispetto, la violenza incita alla violenza. È quando chi ha tutto il potere lo usa per tiranneggiare gli altri, tutti noi perdiamo», diceva Meryl Streep nel 2017 ai Golden Globes in un discorso potente contro Donald Trump.
Adesso Hollywood è zitta. Agli Oscar muti, a parte un siparietto di Adam Sandler che ironizza sulla domanda fatta a Zelensky da un cronista ultraconservatore: «Perché non indossa un abito alla Casa Bianca?». O Daryl Hannah, che sul palco dice: «Gloria all’Ucraina»; o Zoe Saldaña che fa un discorso a difesa degli immigrati. Non tanta roba. L’America che non lo voleva è ancora nella fase della negazione. Nella notte degli Oscar il nome di Donald Trump non viene mai pronunciato da nessuno.
C’è l’eccezione dei cittadini del Vermont che sono scesi in strada per dare a Vance, che voleva farsi un weekend sulla neve dalle loro parti, del «traditore» della libertà americana. Il resto dell’America sembra inerme, mentre ai cronisti non allineati viene limitato l’accesso alla Casa Bianca, perché il libero pensiero non abita più lì, i governatori vengono minacciati pubblicamente, gli insulti distribuiti a palate.
Ma stare zitti è assecondare il despota. Noi italiani abbiamo capito che cosa avesse significato tacere davanti a un dittatore fascista quando era ormai troppo tardi. Allora c’era gente che diceva di non sapere, oggi nessuno può dire che non sa, può solo dire che non gli importa nulla. Arriverà un giorno in cui Donald Trump non ci sarà più, ma il disonore resterà su chi ha acconsentito al disprezzo come unica legge.
Con la sua ostinazione per la libertà, il piccolo Zelensky è stato cacciato dallo Studio Ovale, ma ha ricompattato l’Europa smarrita. La maggioranza degli europei ha identificato il branco dei lupi. La nostra America è irriconoscibile, Dio benedica la Statua della Libertà oscurata da due campioni della forza bruta.
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