Greta Scarano: «Senza rischio che gusto c’è?»

Sul set di Suburra, il suo nuovo film, stava per finire tra le fiamme. E anche in tv sceglie solo ruoli pericolosi e tormentati. Greta Scarano è una ragazza coraggiosa dentro e fuori lo schermo. C’è solo una cosa che le mette ansia: «Il tappeto rosso»

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Metto a posto i cuscini del divano e controllo i vol-au-vent al prosciutto che ho messo a scaldare in forno. Mi guardo intorno: l’ordine, almeno quello apparente, c’è. La porta della camera di mia figlia rigorosamente chiusa, lei volatilizzata. L’idea che io facessi un’intervista a casa nostra l’ha intimidita, ha chiamato di corsa un’amica, ha preso la borsa ed è uscita alla velocità della luce. Non mi ha chiesto neanche il nome dell’attrice che stavo per incontrare.
Del resto anche per me questa è una prima assoluta. In tanti anni di mestiere di giornalista non è mai capitato che invitassi da me l’intervistato. E direi che è stato meglio così, visto che per un certo periodo mi sono occupata di cronaca nera, omicidi, rapimenti, bombaroli.

Alle due in punto Greta Scarano suona il campanello. Mi trovo di fronte una ragazza con i capelli castani, completamente diversa da come appare nel suo ultimo film Suburra di Stefano Sollima - lo stesso regista delle serie televisive Romanzo Criminale e Gomorra - tratto dal romanzo omonimo di Carlo Bonini e Giancarlo De Cataldo (pubblicato da Einaudi). Nel cast, accanto a Greta, ci sono Pierfrancesco Favino, Elio Germano, Claudio Amendola. Con Favino, lei ha già recitato in Senza nessuna pietà, ma come mi racconterà più tardi, su questo set non si sono nemmeno incontrati.
Preparo un caffè (i vol-au-vent li ho subito eliminati dal programma quando ho saputo che aveva appena pranzato) ci sediamo in sala. E cominciamo l’intervista. Il contesto familiare crea automaticamente un’atmosfera rilassata. Lei si dimentica di guardare l’orologio, io la scaletta di domande. E due ore scorrono veloci.

Il degrado, la corruzione e la criminalità della capitale: questo il filo conduttore di Suburra. Lei che è nata e vive a Roma, pensa che la sua città sia realmente pericolosa?
«Ho assistito allo spaccio di droga e a risse degenerate in accoltellamenti. Ma non mi sono stupita perché molte zone sono violente da sempre, non certo dallo scandalo di Mafia Capitale. I romani lo sanno. Non ci sono città dove mi sento più sicura che in altre, la sera quando esco sto attenta e in guardia. Ovunque mi trovi».

Ci parli di Viola, il suo personaggio in Suburra.
«È una tossicodipendente di eroina, un’anima persa. Del suo passato non si sa nulla. Prova un amore cieco per un capo criminale, Numero 8 (alias Alessandro Borghi, ndr) che in qualche modo la porta a superare se stessa e il suo istinto di morte. Tra i ruoli che ho interpretato finora, questo è il più intenso, il più depresso. Mi ha scosso emotivamente, nel profondo. C’erano giorni in cui stavo malissimo. È stata un’esperienza travolgente, impossibile non uscirne cambiati. Poi c’è stato un altro aspetto: il rischio fisico sul set».

In che senso?
«In una scena viene appiccato un incendio e un’enorme struttura di legno prende fuoco e cade a un paio di metri da me. Ho sentito un calore tremendo, i leggings mi si sono attaccati alle gambe. È intervenuto l’infermiere che mi ha curato con dosi massicce di pomata anti ustioni. Sul set non mi risparmio, non mi rendo neanche conto che posso farmi male. Dalle riprese di Suburra sono uscita piena di lividi e graffi. Però mi sono tanto divertita».

Si riconosce di più nei ruoli da maschiaccio?
«Mi innamoro dei personaggi e della loro storia. Potrei anche interpretare una donna fatale, un giorno. Però è vero che ultimamente sono incline a ruoli drammatici e tormentati. Come nella serie In Treatment 2 (la serie con Sergio Castellito trasmessa da Sky Atlantic, ndr). È stato veramente pazzesco».

Anche qui ha “sofferto”?
«Naturalmente. Sono una ragazza che si ammala di cancro e va dallo psicanalista perché lui l’aiuti. Nel corso delle sette puntate, lei inizia il primo ciclo di chemio, dimagrisce, deperisce. E io mi sono sottoposta a una dieta tremenda, ho perso tanti chili, ho lottato con la fame».

Il pubblico però l’ha conosciuta attraverso personaggi meno drammatici: Sabrina, nella soap opera Rai Un posto al sole, e Francesca, nella serie televisiva di Canale 5 Squadra antimafia.
«In Un posto al sole ho recitato poco più di 12 mesi, quando avevo 22 anni, poi non ho rinnovato il contratto anche se non avevo un piano B. Squadra antimafia è stata un’esperienza più lunga, ma dopo tre anni ho deciso di interrompere».

Come mai? Per caso ha un’insofferenza per le serie televisive?
«Andarsene da un cast affiatato e da una serie che funziona è una scelta difficile. Ma mi fido del mio istinto e per ora non mi pento. La mia vita è così: a 16 anni ho interrotto il liceo classico di Roma per trascorrere un anno in Alabama».

Perché proprio l’Alabama?
«L’idea di frequentare il quarto anno di liceo negli Stati Uniti piaceva sia a me sia ai miei genitori. Poteva capitarmi New York e invece sono finita nei campi di cotone. A Jasper, nella contea di Walker, un angolo del nulla. Non sapevo esistessero Paesi tanto retrogradi in America, dove i neri e gli omosessuali vengono ancora discriminati. Tra i miei compagni di scuola c’erano ragazzi i cui nonni hanno fatto parte del Ku Klux Klan. Assurdo. Mi sembrava di vivere ai tempi di Via col vento».

Anche Jasper è pericolosa come Roma?
«No Jasper, no. Per niente. Lì sei al sicuro. Anche perché se commetti un crimine rischi la pena di morte. Comunque tutta questa tranquillità notturna per me era inutile, se avessi voluto uscire non avrei saputo dove andare. A Jasper non c’è niente da fare di sera, se non guardare la televisione o leggere».

Qual è il suo bilancio di un anno vissuto lontano dall’Italia?
«Parlo e recito in inglese, anzi in americano, come se fosse la mia lingua madre».

Lei è legata all’attore e regista Michele Alhaique che l’ha diretta in Senza nessuna pietà. Vi siete conosciuti sul set?
«Sì, ma di un altro film, Qualche nuvola, opera prima di Saverio Di Biagio. Recitavamo il ruolo di marito e moglie e ci siamo innamorati».

Parlate di lavoro oppure a fine giornata chiudete tutto fuori dalla porta di casa?
«Neanche per sogno, noi condividiamo tutto. Di Michele io mi fido ciecamente, gli chiedo consigli di continuo. Sinceramente non capisco le coppie che svolgono la stessa professione, soprattutto se in ambito creativo, che non ne parlano l’uno con l’altra. No, è impensabile. Il nostro lavoro è una passione: il vero lavoro per me è quando non lavoro. Quindi, per noi parlare di film, di copioni, di registi, di riprese è la cosa più bella del mondo. Entrambi adoriamo il cinema. E io vivo per recitare».

Non ha mai pensato di fare altro?
«Non me lo ricordo, non credo. Quando ho compiuto 5 anni, mio padre mi ha iscritto a un corso che prevedeva una recita di fine anno, di cui noi bambini inventavamo la sceneggiatura, sceglievamo le musiche, dipingevamo i fondali. Il mio papà mi ha sempre spinta verso l’espressione creativa. Ho anche studiato canto e ho imparato a suonare la batteria».

Suo padre è un artista?
«È neurochirurgo. Mia madre è infermiera. Ma non ho mai pensato di seguire le loro orme: io non posso vedere un ago senza sentirmi male. Può immaginare come stavo quando sul set di Suburra giravamo le scene in cui m’iniettavo l’eroina».

Forse suo padre avrebbe voluto diventare un attore e ha proiettato i suoi sogni su di lei.
«Da ragazzo ha sempre combattuto contro la timidezza. E ha voluto che imparassi a esprimere me stessa, ha cercato di risparmiarmi una sofferenza».

Il cinema è la sua grande passione, d’accordo. Ma ci sarà un aspetto del suo lavoro che le piace di meno.
«Il red carpet. L’ho fatto l’anno scorso alla Mostra del cinema di Venezia per la presentazione di Senza nessuna pietà. L’aspetto glamour del mio mestiere mi mette ansia. Non sono un orso, ma tutto ciò che è festaiolo, se legato alla mia professione, mi piace soltanto quando rappresenta un riconoscimento del mio impegno. Se è fine a se stesso, non mi interessa. Tanto sono a mio agio sul set, tanto sono un pesce fuor d’acqua sul tappeto rosso. Fatemi recitare e io sono la persona più felice del mondo».

C’è un’attrice che ama in particolare, che per lei in qualche modo è un modello di riferimento?
«Kate Winslet. È una donna che mi affascina da morire, con un carisma infinito. Una stella di prima grandezza. Ma ce ne sono tante altre: Marion Cotillard e Meryl Streep, per dirne alcune».

Qual è stato il primo divo che ha conosciuto?
«Pierfrancesco Favino. Anche se non lo chiamerei divo, a lui non piacerebbe. Lui è famoso, è un grande. Ma la parola divo fa troppo Hollywood».  

Dopo Senza nessuna pietà, vi siete ritrovati sul set di Suburra.
«In realtà non ci siamo nemmeno incrociati. Io e Pierfrancesco non abbiamo neanche una scena insieme nel film»

Il suo compagno ha già visto Suburra?
«Non ancora. Non sta più nella pelle , è curiosissimo, gli ho fatto una tale testa. Ammira moltissimo Stefano Sollima. E spero anche me».

Sono le quattro del pomeriggio. Il tempo è volato. Accompagno Greta alla porta. La saluto e la vedo scomparire in ascensore. Pochi minuti dopo sento sulle scale i passi di mia figlia. «Via libera?», chiede. E si scatena sui vol-au-vent.

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Jodie Foster: "Faccio film per capire chi sono"

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Jodie Foster festeggia al cinema 60 anni da star. Nel thriller Vita privata, da oggi nelle sale, è una psicanalista tormentata. Ma a noi racconta come, grazie alla sua carriera, ha capito che le donne over 50 hanno tutte le carte per vincere

Come trascorre il giorno del suo compleanno una diva planetaria come Jodie Foster, sotto i riflettori dall’età di tre anni? «Lavorando», mi risponde accomodata sulla poltrona, mentre sorseggia un cappuccino. Neanche a farlo apposta la incontro proprio il giorno in cui compie 63 anni e mi confida che finita l’intervista andrà con gli amici a festeggiare. Sessant’anni di carriera tondi, fresca del Golden Globe vinto a gennaio per la sua performance nella serie True Detective: Night Country, la regista e attrice torna al cinema con il nuovo film di Rebecca Zlotowski Vita Privata. Presentato in anteprima al Festival di Cannes e dall’11 dicembre al cinema, la vede calarsi nei panni della nevrotica psichiatra Lilian Steiner, ossessionata da un caso molto delicato.

Che rapporto ha con il passare del tempo?

«Buono. Mi sento più felice che mai in vita mia».

Davvero?

«Parlo di una gioia profonda, non di quello che mi accade giorno per giorno. Le cose della vita, belle e brutte, capitano. Ma vivo un momento in cui il lavoro sta andando sempre meglio e ho superato l’ansia delle domande: “Sarò in grado di farcela con le mie forze?”, “Avrò una famiglia?”. Tutte questioni archiviate, per fortuna non devo più preoccuparmene. Da giovane passavo tanto tempo a pensare a me stessa, dopo una certa età mi sono concentrata sulle storie degli altri, è più facile e divertente».

Anche in Vita privata ascolta le storie degli altri.

«La mia Lilian non è una psichiatra risolta, anzi, è parecchio nevrotica. Non riesce a comprendere come sia possibile che la sua paziente in cura da nove anni (Virginie Efira, ndr) si sia potuta uccidere. Non ci crede, non ammette la possibilità che lei, in quanto psichiatra, sia stata così sorda».

Ritiene che come società abbiamo perso il potere di ascoltare?

«Mostrare curiosità verso gli altri è tutto. Noi attori siamo allenati all’ascolto, per lavoro siamo chiamati a calarci nelle vite degli altri ed è una bella abitudine mettersi nei panni altrui, un esercizio che possiamo fare tutti. Ci aiuterebbe come società».

Dal titolo del film alla realtà, essendo conosciuta in tutto il mondo sin da piccola come ha fatto a proteggere la sua, di vita privata?

«Sforzandomi sempre molto. Lavorando sin da bambina sapevo di dovermi proteggere: volevo andare a Disneyland, ma senza le telecamere che mi seguissero. Volevo essere libera di andare al supermercato, o prenotare un volo senza che nessuno lo facesse al posto mio. Ci ho sempre tenuto a mantenere viva la mia indipendenza, tracciando una linea netta tra la mia vita pubblica e quella privata. Oggi sono contenta di aver seguito quell’impulso».

Nel film la sentiamo sfoggiare un francese fluente…

«Mi fa sentire più sicura di me, rispetto all’inglese. Sarà che devo la passione per il francese a mia madre, che me lo fece studiare». 

Come mai?

«Non aveva mai viaggiato fuori dagli Stati Uniti fino ai cinquant’anni, ma la cultura europea l’affascinava. Comprava di continuo riviste e libri su Parigi e Napoleone, addirittura dipinse le pareti di casa con i colori delle antiche pietre romane. Quando ero bambina fece il viaggio dei suoi sogni e andò in Francia, con un tour in bus di quelli turistici».

Che cosa le disse al ritorno?

«"Jodie, impara il francese e diventa una grande attrice francese". Era il suo modo di dirmi che sognava per me una vita più ampia di quella americana. Anche perché erano gli anni 70, al potere c’era Nixon, non era facile essere americani. A mia madre piaceva l’idea che potessi scegliere di essere libera di inventarmi una vita tutta mia».

Ha fatto lo stesso con i suoi figli?

«Dovrebbe chiederlo a loro (Charlie e Kit, 27 e 24 anni, ndr). Intanto uno di loro sa parlare benissimo il tedesco, le mie radici tedesche ne sono contente».

Che rapporto ha con la psichiatria?

«Sempre stata scettica, ma una volta mi sono fatta ipnotizzare».

Com’è andata?

«Mi ripetevo: "Ma perché pagare 90 dollari a un tipo quando potrei smettere di fumare gratis oggi stesso?", eppure ha funzionato. Non amo la psicanalisi, per quanto la trovi attraente da un punto di vista cinematografico: non mi piace Freud, in America nessuno lo stima più, era un grandissimo sessista. Trovo però importante che al cinema si parli di salute mentale».

E che si mostri come le donne over 50 abbiano desideri, diritto al piacere e una vita sessuale appagante, come la sua Lilian con l’ex marito interpretato da Daniel Auteuil: perché tutto questo al cinema si vede ancora poco?

«Dovremmo parlare per ore della rappresentazione del corpo femminile. Purtroppo i pregiudizi sulle donne dopo una certa età sopravvivono, non solo al cinema. Ma sono speranzosa: registe come Zlotowski dimostrano di voler raccontare le donne per quello che sono, con tutti i loro desideri. La mia Liliane non è solo una psichiatra, una madre e una nonna, ma una donna che si esprime anche attraverso il  corpo».

Con Auteuil avete avuto un intimacy coordinator?

«È una figura che ho scoperto sul set di True Detective. Ho detto: "Che lavoro pazzesco, dov’eri tu quando avevo 16 anni?". Ormai io e Auteil abbiamo superato i 60 e abbiamo risolto senza, ma sono contenta che questa figura esista, era importante che ci fosse».

Che cosa di lei non hanno mai capito finora?

«Non sono seria come credono. Non ho mai capito perché il pubblico mi affibbi quest’aura di serietà, io sono una persona leggera. Certo, se mi fanno domande serie rispondo in modo serio e amo fare lavori significativi, ma se sapeste com’è la mia giornata ideale cambiereste idea».


Com’è la sua giornata ideale?

«Sveglia presto, sci ai piedi, la sera una partita di calcio in tv e una cena gustosa. Altro che tormentata, sono una persona felice e ottimista verso il futuro».

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Come trasformare l'eredità in un'opportunità per i propri figli

Elena Valzania x Alleanza
L'eredità di famiglia può assicurare un sostegno economico ai propri cari. Basta sottoscrivere una polizza di investimento adeguata, affidandosi a un bravo consulente

Elena Valzania ha 57 anni e vive a Ravenna, in una casa che ha ereditato dalla sua famiglia. Cresciuta in un contesto economicamente stabile, è stata segnata più di quanto pensasse da ciò che ha ricevuto in eredità: non solo beni, ma un intero modo di vivere e pensare il denaro. «I nostri familiari conducevano vite semplici, risparmiavano e investivano».

A un certo punto, la malattia entra nella sua storia familiare e si intreccia alle questioni economiche. Il padre di Elena si ammala gravemente, per poi morire quando lei ha 20 anni. Insieme con i beni materiali, Elena riceve anche un’eredità invisibile: l’idea che il lavoro debba essere per forza fatica. Un peso silenzioso che la accompagna a lungo, anche dopo la laurea in Farmacia, quando si avvicina all’omeopatia e inizia a lavorare. «Rispetto allo studio, lavorare mi sembrava facilissimo, ma proprio per questo mi pareva che non valesse abbastanza». E infatti, quando viene assunta in una cooperativa di Bologna, non negozia lo stipendio.

La sua carriera aziendale si interrompe durante la sua prima maternità: l’azienda viene acquisita e, al rientro dal congedo, capisce che stanno cercando di spingerla alle dimissioni.

Da allora, Elena non è più rientrata nel mondo del lavoro “ufficiale”. I soldi necessari ad andare avanti, però, in un modo o nell’altro, entrano. Ed Elena procede nella sua vita, con una leggerezza sconosciuta ai suoi familiari. Che le è concessa, però, anche grazie all’eredità materiale ricevuta da loro: «Mio marito e io abbiamo sempre avuto la mentalità di investire sulla nostra famiglia. Tuttora siamo concentrati sul mantenere i nostri tre figli agli studi e i beni di famiglia sono un mezzo per sostenere questa nuova generazione».

Parola all'esperta: le polizze come strumento di tutela

RISPONDE ELENA BELLUCCI DELL’AGENZIA ALLEANZA DI EMPOLI (FI)

1) Come si gestisce un’eredità ricevuta?
«Ricevere un’eredità può risultare persino destabilizzante, specie se si tratta di grandi somme, e senza una gestione attenta il rischio è di sperperare il patrimonio o di non trarne vantaggio. È insomma necessaria un’attenta pianificazione che parta dai bisogni dell’individuo o della famiglia, ragione per cui può essere molto utile affidarsi a un buon consulente assicurativo e finanziario. Tra le soluzioni possibili ci sono le polizze di investimento, che combinano l’opportunità di investimento con la componente assicurativa, che offre una protezione sul capitale o sul rischio di vita. Ne esistono di diversi tipi: con quelle a capitale garantito, per esempio, si ha la certezza che il capitale che sarà restituito all’uscita dall’investimento non sarà inferiore a quello versato».

2) Che vantaggi hanno, rispetto alle altre soluzioni? 
«Le polizze da investimento sono nate per chi desidera assicurare un sostegno economico ai propri cari, anche in caso di decesso, con l’aggiunta di un rendimento. Offrono però anche altri vantaggi: uno dei più importanti sta nel fatto che il capitale così collocato non rientra nell’asse ereditario e non viene considerato nel calcolo dell’eredità ai fini della tassa di successione. In caso di morte del contraente le somme passano al beneficiario, nel rispetto delle quote di eredità legittime disponibili, e questo rende la polizza un ottimo strumento per tutelare le coppie non sposate o i minori».

Testo di Annalisa Monfreda
*co-fondatrice di Rame, rameplatform.com

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«Quanto ti dicono: "se non puoi violentare tua moglie, chi puoi violentare?"»: l'editoriale di Silvia Grilli

Silvia Grilli
Il nuovo numero di Grazia è ora in edicola. Ecco l'editoriale della Direttrice Silvia Grilli

In una scena di C'è ancora domani, la protagonista Delia, costretta dal marito brutale a un rapporto sessuale, toglie un granellino di polvere dal comodino, completamente estranea a quanto le sta accadendo. La dissociazione è un'autodifesa comune tra le vittime di stupro.

Una ragazza che intervistai mi raccontò che, durante la violenza, cercava di ricordare le parole delle sue canzoni preferite. Era come congelata nel panico: non urlò, non si mosse, terrorizzata di subire ulteriori aggressioni.

Jessica Mann, una delle testimoni al processo contro il produttore stupratore Harvey Weinstein, ha ricordato di essere rimasta immobile, mentre lui la violentava. Mann ha citato in tribunale uno studio scientifico sulle difese messe in atto da esseri umani e animali. Questi ultimi si fingono morti di fronte a un attacco, perché così i predatori sembrano perdere interesse. Ma, per ironia della sorte, è proprio l’immobilità della vittima a mettere in dubbio la credibilità delle donne nei dibattimenti per stupro. «Non si è mossa, quindi vuol dire che ci stava».

Giorgia Meloni ed Elly Schlein hanno voluto una legge per cambiare la vecchia norma, secondo la quale è reato solo se si viene costrette ad atti sessuali con modi violenti o minacce. Le due leader condividono l’idea che il consenso debba essere dichiarato all’inizio e durante il rapporto.

L’atto sessuale deve avvenire per libera scelta, non per ricatto, abuso di potere o quando la volontà è ridotta per effetto di alcol o sostanze. E non è consenso solo perché si era detto «sì» in passato o perché si è sposati. Il silenzio o l’inerzia non sono acquiescenza, ma una conseguenza della violenza stessa. E ci si può tirare indietro, anche dopo aver, inizialmente, condiviso l’approccio.

La legge, nata dal patto Meloni-Schlein, è stata approvata all’unanimità dalla Camera dei deputati. Ma al Senato, nella Giornata contro la violenza degli uomini sulle donne, è stata bloccata e rinviata. Il ministro Matteo Salvini sostiene che «Il consenso preliminare lascia spazio a vendette personali che intaserebbero i tribunali».

Cioè, la magistratura si ritroverebbe con orde di donne che mentono. Sinceramente, non ho mai visto in Italia tutta questa folla di femmine pronte ad accusare per incastrare qualcuno. Sinceramente, mi pare il contrario: le vittime non denunciano perché conoscono bene gli interrogatori e il calvario che dovrebbero sopportare se lo facessero. Sinceramente, mi sembra una bocciatura per paura di perdere i privilegi maschili.

In una scena del film After the Hunt - Dopo la caccia, Julia Roberts dice a una studentessa che accusa un professore di stupro: «Non denunciare, altrimenti diventerai radioattiva. Il nostro sistema è dominato dai maschi. Ne avrai bisogno quando chiederai lavoro, e non lo otterrai perché saranno terrorizzati che un giorno tu possa accusare anche loro».

La notte del weekend scorso, a Milano, una ragazza ha denunciato per violenza un giovane con il quale si era allontanata. «Mi ha violentata», ha detto. «Era consenziente», ha ribattuto lui. Un consenso che fino a un certo punto c’è stato. Poi non più.

Lo stupro non è stupro solo se ti costringono con la pistola puntata alla tempia. Lo è anche quando io non voglio o non voglio più. Vale anche nel caso di rapporti sessuali tra conviventi: solo «sì» è «sì».

Anni fa, un senatore californiano si oppose a una legge contro lo stupro nel matrimonio, dicendo: «Se non puoi violentare tua moglie, chi puoi violentare?». Ecco, è proprio questo il concetto: né il corpo di tua moglie né quello della ragazza che si allontana con te, poi cambia idea, ti appartengono. Il loro corpo è loro, non tuo.

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GRAZIA presenta il numero straordinario "L'arte è donna" con direttrice ospite Patrizia Sandretto Re Rebaudengo

cover Grazia 4 dicembre
Questa edizione speciale celebra il talento e il coraggio di artiste, galleriste, progettiste e collezioniste

Grazia, il magazine di Reworld Media diretto da Silvia Grilli, presenta il numero straordinario L'arte è donna. Il talento e il coraggio di artiste, galleriste, progettiste, collezioniste sono il filo conduttore di questa edizione speciale che ha come direttrice ospite Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, fondatrice e presidente della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, collezionista e mecenate riconosciuta a livello internazionale.

“Nella storia dell’arte le donne sono state cancellate o relegate al ruolo di mute muse ispiratrici, tagliate fuori dalle scuole, dalle botteghe degli artisti”, dichiara Silvia Grilli, direttrice di Grazia. “Con questo numero abbiamo voluto invece raccontare il talento femminile che c’è e c’è sempre stato, la creatività, pervicacia e abnegazione delle artiste donne, il loro sguardo diverso. Quando ho chiesto a Patrizia Sandretto Re Rebaudengo di curare questo numero di Grazia, ho trovato un’interlocutrice appassionata, capace di raccontare nel modo migliore quel genio che non è appannaggio esclusivo degli uomini”.

“Questo numero speciale contiene storie, opere e luoghi che raccontano la mia vita con l’arte contemporanea, sul filo di una grande passione, un sogno, una visione che seguo e inseguo da oltre trent’anni”, spiega la direttrice ospite Patrizia Sandretto Re Rebaudengo. “Fra queste pagine, quel filo rosso è diventato un progetto a più voci che ha unito le forze per parlare dei cambiamenti del mondo delle donne: artiste, collezioniste, direttrici di musei, architette, scienziate. Nessun separatismo, le storie che abbiamo scelto, insieme con la direttrice Silvia Grilli e lo staff di Grazia, superano la tradizionale categoria di ‘femminile’, nell’editoria così come nell’arte, per portarci in un territorio di ricerca, uno spazio plurale, aperto sul presente, sensibile al diritto all’autodeterminazione, al di là di nascita e appartenenze”.

La copertina del numero è un’opera della pittrice e fotografa polacca Paulina Olowska intitolata Weeds (2017 - Courtesy Fondazione Sandretto Re Rebaudengo) che attraverso un nudo femminile - genere che nella storia dell’arte è stato per lo più appannaggio dello sguardo maschile - reclama la propria libertà di espressione.

Per raccontare il suo percorso, Patrizia Sandretto Re Rebaudengo si è affidata alle domande attente del giornalista Dario Maltese e insieme hanno parlato di arte, emozioni e futuro. Si prosegue poi con Hans-Ulrich Obrist, curatore d’arte e direttore artistico delle Serpentine Galleries di Londra, che intervista per Grazia l’architetta messicana Frida Escobedo, che realizza progetti nati dal suo bisogno di comunicare.

E il mondo scoprì le artiste è invece un’inchiesta approfondita sui grandi talenti dimenticati dalla storia. Pittrici e scultrici hanno infatti dovuto lottare e affrontare una moltitudine di ostacoli che non hanno diminuito il loro valore, ma spesso ne hanno cancellato traccia. Storiche dell’arte e curatrici stanno così adottando nuove strategie per restituire loro visibilità, mettendo in atto una vera e propria rivoluzione creativa.

Anche la moda è in linea con il tema portante del giornale: i bijoux americani degli Anni 30 collezionati da Patrizia Sandretto re Rebaudengo saranno abbinati a look liberi e anticonformisti e avranno come sfondo le opere della pittrice Pia Krajewski. 

Sulle pagine della rivista ci sono poi due artisti che vanno oltre le definizioni di genere, lasciando spazio alle loro visioni: si parla di arte e natura con Jota Mombaça e di linguaggi e inclusione con Diana Anselmo.  

Anche il rapporto tra arte cinema è strettissimo: il grande schermo ha raccontato le vite e il tormento dei geni della pittura e Paola Malanga, direttrice artistica della Festa del Cinema di Roma, ha scelto per Grazia le pellicole da non perdere.

Nella sezione dedicata alla cultura, con la collaborazione della Fondazione Sandretto re Rebaudengo, vengono spiegati i percorsi artistici formativi e segnalate le 10 mostre dell’inverno da non perdere che guidano i lettori e le lettrici in un viaggio di linguaggi diversi.

Infine uno spazio è dedicato anche alle eccellenze mediche al servizio della salute delle donne della Fondazione IEO-MONZINO ETS, di cui Patrizia Sandretto Re Rebaudengo è presidente. A parlare delle conquiste nelle terapie e nella prevenzione decisive per le pazienti sono la specialista di senologia Viviana Galimberti e la cardiologa Daniela Trabattoni.