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«Quando il signor Armani mi mostrò le sue orchidee»: l’editoriale di Silvia Grilli

«Quando il signor Armani mi mostrò le sue orchidee»: l'editoriale di Silvia Grilli

foto di Silvia Grilli Silvia Grilli — 11 Settembre 2025
Silvia Grilli
Il nuovo numero di Grazia è ora in edicola. Ecco l'editoriale della Direttrice Silvia Grilli

Il momento più bello era quando usciva in passerella, al termine di ogni sfilata. Era rassicurante continuare a vederlo al gran finale della settimana della moda di Milano, a ogni edizione della haute couture di Parigi, a ogni suo evento in giro per il mondo: da New York a Dubai.

Parlo per me, che con lui a rappresentarci mi sentivo orgogliosa di essere italiana. Ma posso dire con certezza che era confortante per tutti noi che lo guardavamo. C’era, era ancora lì, che Dio lo benedicesse.

Si commuoveva quando salutava gli ospiti in piedi ad applaudirlo, e noi ci emozionavamo con lui. Da Cate Blanchett a Demi Moore a Margherita Buy ad Aaron Taylor-Johnson a Orlando Bloom a Gianmarco Tamberi ai suoi clienti, ai buyer, ai giornalisti. Fino all’ultima volta, il 2 marzo, alla fine dello show autunno-inverno.

Dopo, non l’abbiamo più visto. Non c’era, sulle passerelle della sua collezione di giugno. Non c’era, a Pantelleria, dove aveva costruito il suo paradiso.

Sapevamo che stava male, ma tutti credevamo che ce l’avrebbe fatta anche questa volta. Erano pronte le celebrazioni per l’anniversario della sua azienda, il 28 settembre. Mi stavo apprestando a scrivere l’articolo sui 50 anni della Giorgio Armani spa; sui suoi vestiti che con delicatezza accarezzano il corpo anche nelle sue imperfezioni; sul legame tra Armani e i divi iniziato con gli abiti per Richard Gere in American Gigolò, quando Hollywood impazzì per lui.

È stato il primo a capire la portata dello star-system nella moda. Un po’ gli sarebbe piaciuto anche fare il regista, i film erano stati un suo amore da ragazzo. Ma il suo primo ricordo era un altro: il movimento degli orecchini di sua zia quando aveva 4 anni e sua madre lo portava a casa sua.

A ogni copertina con una star vestita con i suoi abiti mi scriveva a mano una lettera: “Cara Silvia, grazie per l’attenzione che mi hai dedicato”. Mi colpiva quel termine: “attenzione”, una parola sobria, senza smancerie, tra due che lavoravano in due mondi diversi e dialogavano con lo stile.

Si era molto addolcito, ultimamente. I suoi abbracci, le sue strette di mano, erano più caldi. Come altri grandi, non aveva vita privata, la sua vita era il lavoro, ma un lavoro pieno di passione. Continuava a controllare le vetrine delle sue boutique, ad aggiustare i pezzi delle sue collezioni. Però una certa malinconia si era insinuata nei suoi discorsi: la nostalgia per il tempo sottratto agli affetti.

Un giorno di molti anni fa mi fece visitare tutte le stanze della sua casa di Milano. Mi aprì il suo guardaroba a 48 ante con rasserenanti magliette blu di cachemire e seta. Mi mostrò le orchidee che coltivava nella sua dimora di Broni, nel Pavese, e portava a Milano quando c’era la fioritura.

Mi fece vedere i regali che gli avevano fatto le star di Hollywood; la sua raccolta di pantere di bronzo, orsi bianchi e giaguari. Amava Milano. La preferiva a New York, che pure era stata la prima città fuori dall’Italia ad abbracciare le sue creazioni e dove era tornato lo scorso ottobre, dopo dieci anni di assenza, per celebrare la sua nuova boutique e il suo nuovo palazzo in Madison Avenue.

Non le ha mai mandate a dire. Arrotondava la sua parlata con la erre rugosa tipica della sua Piacenza e diceva quello che pensava. Contro le nudità in giro per Milano, contro alcuni influenti giornalisti che lasciavano in anticipo la fashion week di Milano per scappare a quella di Parigi, contro le provocazioni di certi colleghi stilisti, contro il mondo chiuso della moda italiana che non fa squadra, contro i vestiti importabili.

Era democratico. Non voleva che lo stile parlasse a pochi. Avrebbe voluto vestire tutti. Sentiva profondamente la responsabilità di essere italiano.

Durante la pandemia ci concesse un’intervista di copertina bellissima in cui ci spronava a ricostruire il Paese dopo il contagio. Paragonò le sirene che udiva nel lockdown a quelle durante la Guerra, quando da bambino sentiva improvvisamente il suono degli allarmi seguito dai bombardamenti. Ci disse che la cosa che più gli mancava erano le riunioni con i suoi collaboratori. Credo che nessuno l’abbia stimato più di tutti coloro che hanno avuto la fortuna di lavorare con lui.

Ha scritto: “Il segno che spero di lasciare è fatto di impegno, rispetto e attenzione per le persone e per la realtà”.

© Riproduzione riservata

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