Gianmario Verona (Università Bocconi): "E l’università è cresciuta in fretta"
L’emergenza Covid-19 ha costretto le università a ripensarsi e a riprogrammarsi completamente in un lasso di tempo brevissimo. La pandemia è stata per il mondo della formazione un acceleratore eccezionale che ha portato la didattica dall’aula al digitale in una settimana. Mentre stiamo ancora gestendo la fine di questo anno accademico, tra lezioni in streaming e on demand, a richiesta, esami e sedute di laurea a distanza, tutti noi stiamo metabolizzando questa “nuova normalità” per affrontare la ripresa in settembre e offrire ai nostri studenti, anche in un anno che si prospetta incerto a causa delle onde della pandemia, un’esperienza universitaria completa e all’avanguardia.
Difatti il nuovo anno accademico partirà su un doppio binario. Alle lezioni in aula, che auspichiamo di poter riprendere se Governo e regioni daranno il via libera, saranno affiancate quelle in remoto e questo per garantire a tutti la possibilità di proseguire gli studi regolarmente, indipendentemente dal luogo di residenza.
Alla Bocconi, per esempio, sono tantissimi gli studenti fuori sede e alcuni di essi, soprattutto gli studenti internazionali che vivono in altri continenti, avranno presumibilmente problemi di mobilità. Per essi sarà fondamentale continuare a operare in remoto. Ma non saranno i soli. Perché le aule, al pari di cinema e teatri, dovranno contenere un numero di persone che rispettino la distanza sociale, quindi di numero inferiore rispetto al solito. Oltre a riorganizzare i nostri spazi per garantire le misure di sicurezza e di distanza, dovremo quindi ripensare i corsi per permettere a tutti di andare in aula se possono, ma sarà necessario scaricare una parte del percorso di formazione in remoto. Dovremo quindi predisporre una nuova modalità didattica che integri il digitale con l’aula.
A questo proposito tre sono le lezioni di questi mesi che riguardano più l’offerta che la domanda: abbiamo difatti davanti una generazione nativa digitale che ben conosce le potenzialità della tecnologia e ama impiegarla.
La prima lezione è che il digitale ha una forza singolare che dipende dal contesto di impiego. La domanda da porsi è: per che tipo di corsi, di lezioni, il “distance learning”, l’apprendimento a distanza, funziona bene? E in quali casi la presenza fisica è invece fondamentale? Generalizzando possiamo distinguere due macrocategorie: i corsi e le lezioni più descrittivo-teoriche e quelli di natura più esperienziale e applicativa. Se i primi, soprattutto in questo caso di necessità, possono sopravvivere, anzi forse addirittura vivere meglio, in remoto, è chiaro invece che i secondi non possono vivere solo in digitale perché è proprio l’attività in aula, l’interazione tra professori e studenti a determinarne il valore. Se adeguatamente miscelati, digitale e aula fisica migliorano la didattica e la capacità di apprendimento anche per il futuro post pandemia.
La seconda lezione è che per insegnare ai ragazzi dobbiamo essere a nostra volta adeguatamente preparati per coinvolgerli non solo con i contenuti ma anche con il metodo didattico. Il “distance learning” non è fare la stessa lezione che si fa in aula davanti a una telecamera, ma saper utilizzare in modo sapiente tutti gli strumenti che il digitale mette a disposizione. In aula, quindi, devono tornare anche i professori diventando a loro volta studenti per apprendere l’arte di insegnare utilizzando il digitale. Alla Bocconi, già da più di due anni, molti professori hanno seguito attività di formazione sia di metodologie didattiche sia di utilizzo di strumenti e piattaforme digitali. Questo è stato fondamentale in questo periodo.
La terza lezione,infine, riguarda il “digital divide” (il divario tra persone nell’accesso alle nuove tecnologie, ndr). Il digitale, per quanto sempre più sofisticato e in grado quindi di garantire una molteplicità di attività ed esperienze, ha un costo e una diffusione che in questo momento storico rappresentano ancora un limite. Il digitale, sia in termini di programmi informatici e di computer, che di connessione, non è infatti ugualmente adottato dalle università e dai singoli studenti e famiglie, e per questo rappresenta ancora un forte elemento di disuguaglianza che, la pandemia ha dimostrato, deve essere rapidamente superato se non si vuole ancor di più accentuare la distanza tra Nord e Sud, città e provincia, in generale tra chi ha i mezzi e chi non li possiede. Di questo la politica si deve preoccupare e le università devono farsi portatori del problema periferico.
L’aula, fisica o virtuale, non rappresenta però la totalità dell’esperienza universitaria. Lo sa bene la generazione del progetto Erasmus, che va spesso a studiare all’estero, e lo sanno bene i nostri studenti che traggono dall’attività di scambio internazionale una parte significativa del loro bagaglio culturale. La pandemia con lo stop alla mobilità mette a rischio questa parte della vita universitaria. Anche in questo dobbiamo lavorare in ottica emergenziale per garantire il prossimo autunno ai nostri studenti un’esposizione internazionale, anche se in modalità ripensate. Quello che possiamo fare è offrire corsi sempre a distanza negli atenei internazionali di cui siamo partner.
Una domanda infine che tutti ci stiamo ponendo è se, e come, questa crisi modificherà i contenuti della didattica e le scelte di percorso di studi. Se la tendenza in atto è un sempre maggior indirizzamento dei giovani verso le discipline STEM (in inglese: Scienza, Tecnologia, Ingegneria, Matematica, ndr) mi piace pensare che il futuro sarà sempre più interdisciplinare. Matematica e Logica, pensiero critico e Scienze sociali, Intelligenza artificiale e Filosofia dovranno non solo convivere ma integrarsi. Pensiamo, per esempio, a come dovremo affrontare il problema dei contagi sul medio e lungo termine. Se abbiamo gli algoritmi che analizzano i dati sulla diffusione, le scelte da fare richiedono una valutazione che tenga conto delle persone, quindi una decisione di natura “umanistica”. Il mio sogno sarebbe andare verso un sistema di studi simile a quello inglese e americano, che consente agli studenti di laurearsi con un “major” e “minor”, una specializzazione primaria e una secondaria, che possono essere completamente diverse, come Informatica combinata a Musicologia, Economia con Filosofia. Aiuterebbe la capacità di critica e la creatività, due qualità di cui avremo sempre più bisogno. Purtroppo le attuali normative, in Italia, non lo consentono, ma la speranza è che questa crisi ci aiuti a pensare in modo innovativo per reinterpretare la programmazione didattica per il mondo che verrà. (Testo raccolto da Enrica Brocardo)
Articolo pubblicato sul numero 21-22 di GRAZIA (7 maggio 2020)
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