Elio Germano: «Ho guardato negli occhi la follia»
Ha smesso di dover faticare per conquistarsi la stima degli altri, ha chiuso con l’ansia di dover dimostrare la propria bravura e oggi sceglie di tuffarsi solo nei progetti in cui crede.
Ecco perché dopo aver dato vita a personaggi leggendari come San Francesco, il poeta Giacomo Leopardi e l’artista Antonio Ligabue, ritroviamo Elio Germano nei panni del tormentato dentista Massimo Sisti nel film America Latina dei fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo.
La pellicola racconta di un dentista costretto a fare i conti con le proprie paure e le creature spettrali che popolano la sua testa, come la cantina della sua villa, in cui abita con moglie e figlie. Dettaglio non trascurabile, i registi l’hanno voluto calvo. «Era un modo per rappresentare un uomo che vive nella sua testa. L’immagine è stata scelta come locandina del film», mi spiega Germano. Peccato che sulla locandina la testa presenti una spaccatura profonda: l’intervista parte da qui.
America Latina è un racconto sulla salute mentale, tema attuale, eppure poco frequentato dal cinema italiano.
«È prima di tutto il racconto di una persona che vede le sue sicurezze cadere. La nostra serenità è ancorata a una serie di certezze consolidate, ma è il nostro rapporto con la verità a essere labile. Basta che un ingranaggio nel meccanismo s’inceppi, che tutto crolla. Ti chiedi chi sei, chi sei stato. Pensiamo a quali meccanismi ha scatenato la pandemia, a ciò che accade dopo un lutto o a come ci sentiamo quando ci separiamo da un partner. Di fronte a eventi che squarciano il nostro mondo di sicurezze quotidiane, dato che viviamo ormai tutti lontani e isolati, rischiamo la pazzia. E in fondo che cos’è la follia se non parlare un linguaggio che gli altri non capiscono?».
America Latina è un film cupo, il cui protagonista è un uomo sofferente circondato da tre figure femminili quasi eteree. Come torna a casa senza portarsi dietro certe ombre?
«Questo film è stato devastante, più nero del nero. Mi sarei divertito di più a fare un film natalizio di quelli girati a Malibù, ma quel tipo di piacere me lo tolgo con gli amici. Il cinema non deve essere per forza rassicurante. Nel mio lavoro mi faccio attraversare dalle cose: esere attore significa connettersi, farsi tramite e antenna, dimenticare se stessi. Qualsiasi sentimento provato sul set appartiene al mondo, non a me. È la dimensione del gioco che mi permette di entrare in contatto con quelle emozioni».
È altrettanto emotivo fuori dal set?
«Come tutti nella vita tendo a proteggermi. Medito con calma quello che ho da dire».
Com’è la sua vita quando non lavora e nessuno la vede?
«Libera. Cerco di dimenticarmi del mio lavoro. Vivo bene nel mio quartiere, lontano dal centro di Roma, in cui nessuno fa caso a me. Quando tutto intorno a te è difficile, la via d’uscita è capire quello che conta veramente e tenerlo stretto».
Non ci credo che per strada non la fermino.
«Rincorrono altri volti. Poi, certo, a me non passerebbe mai per la testa di andare a prendere un caffè vestito come sul tappeto rosso della Mostra di Venezia».
Continua a leggere l'intervista a Elio Germano sul numero di Grazia ora in edicola.
Foto di Chico De Luigi
© Riproduzione riservata